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Intervista Ronnie James Dio (1983)

Di _DooM_ - 16 Dicembre 2009 - 9:51
Intervista Ronnie James Dio (1983)

Intervista a Ronnie James Dio effettuata da Piergiorgio “PG” Brunelli sulle colonne della rivista Rockerilla numero 39 del novembre 1983. Epoca “Holy Diver”.

Buona lettura

Steven Rich

Giovanni Padovano era stanco e frustrato. Il suo lavorare la terra per un padrone avido e smodatamente ricco non gli dava alcuna soddisfazione personale capace di mantenere viva la tenue fiammella della speranza di poter possedere, un giorno, un appezzamento di terreno tutto suo. Così, quando in paese cominciarono a diffondersi le storie riguardanti due suoi coetanei emigrati qualche tempo prima in America, non gli ci volle molto per sentire crescere nella sua mente un inarrestabile desiderio. La fuga era la sua ossessione, ma per poter attuare il suo piano in modo ortodosso sarebbero stati necessari troppi consensi, il che, nel suo stato di ansia, era di grave intralcio ai suoi desideri. Partito di nascosto a cavallo nel cuore della notte giunse a Napoli dopo otto giorni per imbarcarsi alla volta della terra promessa, verso quella chimera che solo a New York aveva qualche chance di realizzarsi. Sapeva che non sarebbe stato facile, il numero degli emigranti che alla fine del secolo scorso traversarono l’Atlantico era troppo alto per poter garantire condizioni di vita decenti per tutti. Ma Giovanni era pronto a qualsiasi sacrificio.

In fondo, qualsiasi lavoro era più gratificante dello spezzarsi la schiena sulle zolle altrui sotto il sole cocente. La storia di Giovanni, come nelle favole, ha un lieto fine, ma, al contrario del noto “ragazzo della via Gluck”, il richiamo della terra natia si è fatto sempre più lontano e indecifrabile, ma certe profonde radici dell’animo italiano si sono tramandate attraverso tre generazioni. La passione per il canto non si può spegnere neanche col tempo. Ronnie non sa parlare la nostra lingua, ma ha una voce che incanta. La fama derivatagli gli ha permesso di stampare indelebilmente il suo nome nelle pagine più positive di gruppi storici quali i Rainbow e i Black Sabbath. Ora, forte delle esperienze acquisite durante quei giorni, ha fondato un gruppo che porta semplicemente il suo altisonante soprannome: DIO. Per lui il festival di Donington è la prima vera occasione per verificare il coro di consensi che il suo primo album, HOLY DIVER, ha suscitato un po’ dovunque.

R.J. – II mio gruppo ha un suono tipicamente inglese e ciò ha contribuito a consolidare ulteriormente la nostra popolarità in Gran Bretagna. Holy Diver è stato accettato meglio in questo paese rispetto agli U.S.A. per il mio passato. I fan, da queste parti, sono molto fedeli, non dimenticano mai. Holy Diver era molto importante, perché era necessario cancellare certi pessimi prodotti discografici degli ultimi tempi (leggi Live Evil).

Per noi italiani il nome del gruppo ha un significato ben preciso; a quanto pare nessuno all’estero sembra averne la benché minima idea.

R.J. – Il significato non ha influenzato la sua scelta, non mi sono mai considerato un essere sovrannaturale. Inoltre, al di fuori degli italiani nessuno sa che cosa vuol dire, pensa che neanche Spagnoli e Messicani, cui basta aggiungere una ‘s’ in fondo alla parola l’hanno capito. I giornalisti lo mettono in relazione con i Black Sabbath, la magia nera, il diavolo. Questo nome, in realtà, esiste da prima di tutto ciò, si può dire che ci sia quasi nato. Mi sono chiesto che cosa potrebbe succedere in un paese cattolico come l’Italia dove la mia scelta potrebbe essere presa come offesa alla religione. Spero che i giovani mi capiscano; il Papa da parte sua non dovrebbe essere così informato di musica da venirne a conoscenza. Sarebbe interessante, tuttavia, vedere le facce della gente davanti ad un cartellone annunciante Dio in tournee…

Una domanda che, pur se banale, non mi sono potuto esimere dal fare è stata quella relativa ai suoi due ex gruppi.

R.J – Ho lasciato i Rainbow perché mi sono rifiutato di scrivere commerciali e banalissime canzoni d’amore. Non è nel mio stile, non potevo continuare a lavorare con Ritchie. Lui ha continuato a scrivere canzoni d’amore, mentre io ho avuto la fortunata possibilità di unirmi ai Black Sabbath, il che, oltre a darmi ulteriore fama ed esperienza, mi ha consentito di proseguire a scrivere nella stessa vena immaginativa sugli aspetti più tristi e negativi della vita. Non c’è stato niente di personale fra me e Blackmore, ognuno ha le proprie opinioni dell’altro, ma non le divulghiamo in pubblico come è successo quando ho lasciato i Black Sabbath. Non credo che i Rainbow siano finiti nel momento in cui io me ne sono andato perché non mi ritengo l’unico elemento catalitico di quel momento della band. Per quello che riguarda la loro vitalità musicale forse lo sono: non sono più ispirati e originali come allora. Ora sono dei Foreigner n° 2.

Sebbene Ritchie abbia ancora molto da dire come chitarrista, in lui non ci sono più motivazioni: suona senza interesse. Cozy Powell ha lasciato per colpa di questo suo menefreghismo che dopo l’ingresso di Roger Glover nel gruppo ha portato la loro musica lontana dal rock e da quella maestosità musicale che i Rainbow dovrebbero avere quale logica successione dei Deep Purple. Noi all’inizio tentammo di fare qualcosa in più dei Deep Purple fornendo a tutti i fan un contenuto musicale, dei testi, una tecnica di prima categoria. Quando ho lasciato, tutto ciò non c’era più. I troppi ego hanno inoltre contribuito ad accentuare le diversità di vedute. Tuttavia il modo in cui ci siamo separati è stato molto professionale e coscienziosamente tempestivo. Mi sembra molto triste vedere giovani chitarristi, che in fatto di tecnica avrebbero molto da imparare da Ritchie, spazzarlo via per grinta e improvvisazione; non lo trovo giusto perché lui è stato un modello per tanti di loro. Il suo non interesse lo porta ad atteggiamenti di non professionalità.

Il riferimento a un episodio accaduto al Wembley Arena è abbastanza palese. In quell’occasione i Rainbow suonarono cinquanta minuti circa e se ne andarono senza concedere alcun bis. Pare che Ritchie non ne abbia più voluto sapere di tornare sul palco, il che ha provocato una reazione violenta da parte del pubblico lasciatosi andare ad atti di vandalismo assai gravi.

R.J. – Quello è stato un assurdo. Io avevo già lasciato il gruppo ed ho saputo il fatto da Cozy. E’ inconcepibile un comportamento simile, il tuo primo dovere è nei confronti dei fan che comprano i tuoi dischi, le magliette, i biglietti per i concerti; loro si prendono cura di te ti fanno il loro eroe, non puoi esimerti dal restituire tutto questo affetto che ti viene dato. Per alcune persone è una specie di divinità, si dovrebbe chiamare Ritchie Dio; in situazioni del genere il minimo che tu possa fare è dare te stesso, se non lo fai sei un pazzo e non ti meriti di essere una rockstar. Lui non si è mai degnato di firmare autografi, non ha mai concesso niente che non fosse inevitabile e se vuoi tenerti l’amore dei ragazzi devi dar loro delle soddisfazioni, non nasconderti ed evitarli. E’ forse più importante andare al bar a bere che parlare con loro? Ti si toglie così tanto della tua vita? Non sto cercando di mostrarmi come Mr. Wonderful e lui come Mr. Idiot, sto solo dicendo che questa è la mia filosofia: lo si deve fare per la gente.

Ronnie ha portato via la vita ai Rainbow e l’ha donata ai Black Sabbath…

R.J. – Certamente la mia unione con i Black Sabbath li ha rivitalizzati. Prima del mio arrivo erano un po’ spenti e privi di idee. Io credo che la cosa più importante sia stato il mettere in risalto il meglio delle loro capacità musicali perché Toni cominciò a suonare molto meglio di quanto non avesse fatto prima, Geezer è sempre stato un ottimo bassista e quello che dovevano fare era elevarsi allo standard di musicisti che si conviene per un gruppo come i Black Sabbath. Il mio arrivo li ha fatti accettare come artisti musicalmente molto validi non come un ammasso di schifezze da criticare selvaggiamente. Con Ozzy erano un gruppo divertente, con me erano un gruppo serio. Io non potevo essere in un gruppo che il pubblico andava a vedere per divertirsi, c’era la necessità di superare il basso livello a cui avevano sempre suonato. Prima di allora facevano un album in quattro  giorni e ciò è troppo frettoloso. Tony è un chitarrista velocissimo, il miglior ritmico che abbia mai visto, peccato che sia molto poco emozionale, è troppo freddo, sembra che non abbia feeling sul palco. Geezer è il più sottovalutato bassista della musica rock, Bill ha suonato molto bene nel primo album, poi è stato sopraffatto dall’abuso di bevande alcooliche e un senso di autodistruzione lo ha portato a lasciare il gruppo. Vinnie è stato il suo sostituto ideale, perché giovane, vitale.

DIO at Donington – Photo BRUNELLI

Sulla mia dipartita ci sono state molte illazioni e tante chiacchiere, la verità, che tutte le persone vicine a me sanno, è che il tutto non funzionava e che abbiamo deciso di separarci. La gente che mi odia disse che fui licenziato, ma, a mio avviso questo termine è improprio, perché non si può licenziare una persona che rappresenta una parte del gruppo. Io non ero uno stipendiato, nei Rainbow io e Ritchie eravamo i CO-fondatori del gruppo, la band era mia come sua. Nei Black Sabbath non ne ero il fondatore, ma io avevo il 33% della leadership per cui non si può parlare di licenziamento: non si può licenziare un partner. Il nuovo gruppo è molto più bilanciato, c’è molta amicizia e ci piace lavorare assieme; non riuscirei più a lavorare in un gruppo di persone che non mi piacciono, è già successo troppe volte. Non si può lavorare come nei Rainbow in una situazione di precarietà in cui non sai se il bassista sarà nella band fra tre mesi. Non si potevano fare programmi, non si poteva fare amicizia, non c’erano legami solidi fra i vari membri del gruppo. Con Vinnie e Jimmy è più facile perché abbiamo già lavorato assieme e conosciamo i rispettivi pregi e difetti; inoltre Vinnie è italiano come me e, perciò, è più facile capirsi.

Se da un lato questo aspetto della carriera di Ronnie è assai controverso, dal punto di vista della sua attività compositiva tutto “sembra” molto più lineare.

R.J. – Ho sempre scritto degli aspetti più oscuri della vita, sono sempre stato affascinato dal periodo medioevale, che per l’uomo è stata un’epoca assai buia. Ili fascino per streghe, maghi, elfi e via dicendo si riflette anche nel nome scelto per il mio primo gruppo che si chiamava appunto ELF. Queste creature che sgattaiolano nella notte e che non possono essere viste, fonte di incubi e di sogni malvagi, sono gli abitanti dell’occulto regno del male. Per me c’è stata una progressione logica naturale, perché mi crea delle barriere all’interno delle quali mi debbo muovere e la mia fantasia si trova a proprio agio, non c’è la possibilità di sconfinare neanche per un istante in qualcosa di remotamente felice. Per fortuna non ci sono mai state delle restrizioni di alcun genere. Dopo i Rainbow ho solo dovuto cantare con toni molto più dark per la diversa natura del nuovo gruppo e questo mi andava bene, soprattutto alla luce delle imposizioni. che il rimanere avrebbe comportato (“Devi cambiare genere perché non è abbastanza commerciale”); nei Sabbath ho avuto la possibilità di aprire e sviluppare certi aspetti della mia ispirazione compositiva; purtroppo, l’atmosfera del gruppo era troppo oppressiva e alla fine tutto ciò era finito per sembrare qualcosa di imposto. Avevo bisogno di uscire da certe suggestioni, talvolta. Sentivo il bisogno di una boccata di ossigeno, di scrutare in altri aspetti della vita; non è, però, stata colpa loro, come ho già detto non avevo nessuna limitazione di sorta dall’esterno: ero io che inconsciamente mi ponevo in una situazione di eccessivo autocontrollo da cui non riuscivo ad uscire.

Per un attimo mi sovviene che il trono di Ozzy non deve essere stato facile da gestire.

R.J. – Ozzy non ha mai scritto nulla per i Black Sabbath: i testi li scriveva Geezer; mentre, ai miei tempi, io scrivevo i testi e Tony la musica. I testi per me hanno senso solo se sono scritti con della musica valida; io mi considero un valido scrittore di lyrics, perché ho avuto la fortuna di lavorare con degli ottimi musicisti, non sono un Bob Dylan o uno Shelley. Tornando a Ozzy non credo fosse necessario seguire i suoi passi, perché molto diverso da me: io sono un cantante, lui un attore, un personaggio da teatro. Ho solo proseguito per la mia strada, Ozzy una volta mi ha accusato di aver plasmato i Black Sabbath a mia immagine e somiglianza e ci ha chiamato Black Rainbow e Rainsabbath, ma io non trovo niente di sbagliato nel cercare di portare un po’ del mio marchio nel prosieguo  della mia carriera, ammesso che ciò abbia successo.

Indubbiamente c’è chi ha fatto di peggio, considerato che Gillan ha portato i Black Sabbath a suonare Smoke On The Water.

R.J. – La differenza fra me e Ozzy era nel modo di seguire la musica. Se prendi ad esempio Iron Man senti che le parole seguono esattamente la musica, mentre io canto attraverso i cambiamenti, le mie parole sono estensioni di cambiamenti. C’è un aumento dei contenuto melodico del brano e questo lo gratifica di un certo marchio, comune denominatore delle mie canzoni. E il mio stile che ha fatto assomigliare i Black Sabbath ai Rainbow e a tutto quello che faccio, ed è uno stile che altri hanno cercato di copiare (leggi Iron Maiden). Bruce ama molto il mio modo di cantare.

In definitiva, cosa ha acquistato Dio, inteso come band, da queste due esperienze precedenti?

R.J. – Sta cercando di distaccarsi da loro. Sicuramente dai Black Sabbath; come detto prima, io ho cambiato loro in seguito alla carriera nei Rainbow, non il contrario. E’ forse un proseguimento migliorato di quello che ho fatto con i Rainbow, è il tipo di suono che ho sempre cercato con un certo numero di anni di esperienza in più alle spalle nei quali ho imparato a conoscere me stesso, a perfezionarmi. li mio piano di progressione di questa band prevede Holy Diver come pilastro di base, con poche tastiere suonate da me e Jimmy, pertanto assai semplici e alla portata di tutti; è solo un sottofondo di complemento. In futuro con questa base di partenza ci muoveremo su terreni molto più avventurosi, senza tuttavia perdere il filo di intenti che questo gruppo ha; non saremo mai troppo pomposi come sono oggi i Rush. Il progresso non significa shock, almeno non in campo musicale.

A chi è dedicata Don’t Talk To Strangers?

R.J. – È dedicata alla gente che è influenzata da cose malvagie. Oggigiorno, ogni gruppo sembra avere a che fare con Lucifero, il diavolo, il peccato; il satanico è diventato un mezzo per avere successo, una moda. La vita non funziona a quel modo, la musica neanche; c’è una inflazione di gente che propende per il satanismo senza averne la più pallida idea. E molte di queste cose sono dirette a persone che dovrebbero star lontane dal regno del male, perché ignoranti e facilmente suggestionabili. Ti potresti trovare coinvolto in cose più grandi di te e molto pericolose; molto di quello che si dice sulla magia nera è vero. State lontani dalla magia nera. Molti dei miei testi hanno un doppio significato, perciò non ci sono particolari messaggi contenuti in essi: chi li ascolta se ne deve fare un’idea personale. Ognuno la può pensare in modo diverso ed ognuno ha ragione nel suo punto di vista.

Deve essere molto difficile essere ambigui.

R.J. – E molto difficile essere ambigui e intelligenti allo stesso tempo. Io penso di riuscirci assai bene. I miei testi non sono sempre splendidi, ma in ogni canzone trovo sempre qualche gemma adamantina, magari solo una frase, ma è sufficiente. Non c’è niente che non sia già stato scritto o suonato: ci sono cose che io scrivo che sono state fatte centinaia di anni fa, la magia sta nel dire le stesse cose, ma in un modo che non è mai stato usato prima. Ad esempio le parole di Heaven And Hell vengono dal mio cuore e sono una delle cose più importanti che abbia mai scritto. “The world le full of kings and queens, that blind your eyes and steal your dreams, it’s heaven and hell” (il mondo è pieno di re e regine, che ti chiudono gli occhi e ti rubano i sogni, è paradiso e inferno). Questa frase è dedicata a manager, agenti, medici; il mondo è pieno di queste persone senza scrupoli che rubano le fantasie ai giovani e alle persone di talento in cambio di denaro, di fama e queste persone rimangono vuote dentro; sono sempre gli stessi re e regine che governano il mondo a suon di arido denaro. Ovviamente avrei potuto essere più esplicito nei loro confronti, ma in tal caso non sarebbe stato intelligente, probabilmente non sarebbe piaciuto.

Una versione di Heaven And Hell che non è piaciuta è senza dubbio quella apparsa sull’album Live Evil!

R. J. – E’ risultata la cosa più noiosa che io abbia mai fatto dal vivo; Tony voleva fare un lungo assolo e a noi stava bene, perché ci dava la possibilità di riposarci, ma avrei preferito un assolo molto più breve. Io ho declinato ogni responsabilità per quell’album, ho fornito la mia voce dal vivo, Vinnie la sua performance alla batteria, Tony ha fatto la sua parte in studio. E la verità, è una delle ragioni per cui non volevo più stare nella band. Ero schifato dall’idea di suonare in un gruppo il cui LIVE è in parte registrato in studio.

Che significato ha la copertina di Holy Diver?

R.J. – Ancora una volta è un doppio significato. Quello che sembra il diavolo alla maggioranza della gente potrebbe essere una divinità pagana, mentre il prete che rappresenta, in teoria, la parte buona, potrebbe essere il diavolo. Come si può dire quale dei due sia il diavolo? E quale dei due è Dio?


PIERGIORGIO BRUNELLI 


Articolo a cura di Stefano “Steven Rich” Ricetti