Live Report: Judas Priest e UFO al Palabam di Mantova (11/5/2012)

Di Stefano Ricetti - 15 Maggio 2012 - 22:00
Live Report: Judas Priest e UFO al Palabam di Mantova (11/5/2012)

JUDAS PRIEST

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UFO

PALABAM MANTOVA

11 MAGGIO 2012

 

La strana coppia: Judas Priest e UFO. A guardare bene, il panorama metallico odierno avrebbe suggerito qualche altro nome ad affiancare l’ennesima calata in terra italica del Sacerdote di Giuda di Birmingham. Invece la sorpresa è dietro l’angolo: la band capitanata da Phil Mogg aprirà in quel del Palabam di Mantova l’unica data italiana del gruppo britannico, questo quanto si leggeva tempo fa nel  comunicato ufficiale. Curioso, ma reale. Ad accompagnare il duo british il pubblico previsto in termini numerici, tanto che i cordoni – si fa per dire – biancorossi in plastica da cantiere a circoscrivere solo alcune parti di tribuna non sono stati modificati nel  loro alloggiamento originario dagli inflessibili addetti della Sicurezza, colleghi di quelli che non lasciavano passare nemmeno una borchia – anche se solo disegnata e indossata da ragazzi di quattordici anni – all’entrata del Palabam, ma quello è il Loro mestiere e l’osservanza delle direttive in questi casi è fondamentale.      

 

UFO

 

Gli UFO, benché probabilmente sconosciuti a una minoranza del pubblico esistono dal lontano 1969 e vantano venti album di inediti alle spalle, evidentemente questo basta e avanza per creare nell’aria quell’atmosfera di giusta attesa nei riguardi di un gruppo che ha fatto la Storia della musica dura e ha visto passare fra le proprie fila gente come Pete Way e Micheal Schenker, tanto per citarne solo due. Alle 19.30 spaccate Phil Mogg dà il via alle danze, coadiuvato da Vinnie Moore, Andy Parker, Paul Raymond e Rob De Luca, quantomeno mi paiono loro.

 

Phil Mogg, UFO

 

Accanto a pezzi tratti dal nuovo album Seven Deadly – particolarmente riuscita Fight Night – trovano spazio ovvi classiconi del calibro di Mother Mary, Let It Roll, Too Hot To Handle, Lights Out e il gran finale viene riservato a Rock Bottom, tirata alla lunga e infarcita da soli a go-gò. Un Phil Mogg in forma e di buonumore ha inutilmente tentato di biascicare qualcosa in lingua italiana, chiedendo suggerimenti a Rob De Luca in più riprese riuscendo dopo Let It Roll finalmente ad abbozzare un “Grazzzie” veramente sentito dal profondo del cuore. Piccoli siparietti linguistici a parte “How do you say sweetheart in Italian?” risposta: “Che ca**o dici…” il concerto degli UFO riceve grandi ovazioni da chi era lì appositamente per Loro – o non solo per Loro – insieme con applausi di stima da parte del resto del pubblico. Band rodata e suoni all’altezza hanno fatto il resto. Unico disappunto non aver sentito l’inno Doctor Doctor, sciaguratamente non incluso in scaletta. Bah… misteri della Fede…                

 
Judas Priest

 


Alle 21 il grande telone nero velato con la scritta Epitaph si squaglia come neve al sole e le vibranti note di Rapid Fire scatenano la passione HM italiana giunta nelle terre che furono dei Gonzaga. Vedere ma soprattutto sentire un concerto di una band del calibro dei Judas Priest al di fuori dei vari festival è autentica goduria per quanto attiene la resa sonora: possente ma  soprattutto focalizzata ad personam. Rob Halford, al centro del palco, è talmente carico di borchie che deve cantare ingobbito su se stesso – si scherza, ovviamente – con il resto del gruppo che pesta subito a dovere inondando di Metallo il Palabam tutto. Metal Gods e Heading Out to the Highway completano un  trittico iniziale da cardiopalma nonostante gli inglesi da un po’ di tempo a questa parte propongano più o meno la stessa scaletta, ma non ci pensa nessuno tanta è l’enfasi sprigionata dai cinque sul palco. Halford spacca come sa fare, tutti contenti.    

 

Robert John Arthur Halford, detto Rob, JUDAS PRIEST

 

Judas Rising conferma anche dal vivo di essere una delle più belle canzoni HM degli ultimi vent’anni, a seguire la non clamorosa Starbrekaer, pronta ripresa con Victim Of Changes, Never Satisfied e Diamonds And Rust, quest’ultima eseguita nelle sue due accezioni. Lo spettacolo non si ferma alla sola musica, ad accompagnare i Priest vi sono fumogeni, laser e fuoco vero tanto che pare di assistere ad un vera e propria celebrazione dell’Acciaio fatto musica.

A seguire Prophecy, Night Crawler, la grandissima Turbo Lover dalle chitarre come rasoi, Beyond The Realms Of Death, The Sentinel e Blood Red Skies, per carità, bellina ma non irresistibile se paragonata agli altri brani Priest del setlist. Halford ringrazia calorosamente anche in italiano e lancia The Green Manalishi, poi decanta l’Anno Domini 1980, fondamentale e irripetibile per l’HM, nel quale uscirono capolavori da parte di Saxon, Iron Maiden, Motorhead, Scorpions – il buon Rob si ferma a questi quattro altrimenti si tirerebbe notte – e d’incanto partono le note di Breaking The Law, cantata completamente dal pubblico per tutta la sua durata e la band a riproporre la straclassica posa plastica con gli strumenti allineati a 45° che ha fatto la storia. Emozione e pelle d’oca, attimi che resteranno per sempre per chi li ha vissuti fino in fondo.     

 

Richie Faulkner e Glenn Tipton, JUDAS PRIEST

                 

Scott Travis da lassù si prende il proprio spazio per il drum solo a sul finale dà il via a Painkiller, pezzo ove Robert John Arthur Halford da Birmingham paga pegno, ma vorrei vedere chiunque altro a tirare senza sbavature al suo posto con quasi sessantadue candeline sul groppone e due ore di concerto addosso!                     

Breve pausa, il tempo per indossare il gilet con dietro la copertina gialla di Screaming For Vengeance da parte del singer ed è tempo per The Hellion/Electric Eye. Ghiaccio secco e rombo di Harley Davidson, Halford in moto con il vecchio berretto in pelle nero dei tempi di Unleashed In The East inforca le note di Hell Bent For Leather ed è ancora delirio siderurgico collettivo. You’ve Got Another Thing Comin’ beneficia della bandiera italiana sulle spalle argentate del cantante, solo di Richie Faulkner e la band si ritira per l’ultimo break.

 

Richie Faulkner e Rob Halford, JUDAS PRIEST

 

Inaspettatamente è il batterista Scott Travis a inneggiare dall’alto della sua batteria ad un ulteriore brano e i Judas Priest chiudono l’orgia metallica britannica con l’ennesimo inno: Living After Midnight. Momenti di gloria anche per il più Judas Priest di tutti: il grande Ian Hill a pollici alzati ringrazia il pubblico attraversando l’intero palco da destra a sinistra. Fine con tutti e cinque schierati a un orario umano come le 23 e 20 circa, con sommo gaudio di chi deve sciropparsi centinaia di chilometri nella notte e può rincasare prima che sorgano le luci del nuovo giorno.     

 

Richie Faulkner, JUDAS PRIEST

   

Dopo due ore e passa di Acciaio Tonante di cotanta portata resta l’eccitazione per una notte indimenticabile, con l’adrenalina in circolo per i due giorni successivi e di botto ci si scorda del periodo con Halford fuori dal gruppo e in antitesi con l’HM classico e con la band, delle dichiarazioni accalappia-presenze relative all’ultimo tour del gruppo poi puntualmente smentite dai fatti e della mancanza di un’icona come KK Downing, anche se è davvero impressionante la somiglianza fra quest’ultimo e  il sostituto Richie Faulkner, soprattutto quando si piega su se stesso nascondendo il volto… 

 

J U D A S  

P R I E S T

H E A V Y 

M E T A L !

 

 

Testo e foto di Stefano “Steven Rich” Ricetti