Recensione: “15”

Di Stefano Burini - 16 Luglio 2013 - 22:04
15
Band: Buckcherry
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 2006
Nazione:
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83

Buckcherry: un nome che da questa parte dell’oceano Atlantico dirà forse poco a coloro che non vivano di pane e Hard Rock, nonostante lo status di star di prima grandezza raggiunto in quasi quindici anni di carriera negli States a suon di dischi d’oro e di singoli nella prestigiosa top ten di Billboard.
 
La loro ricetta era (e continua ad essere) tutto sommato semplice: guitar work rovente, riff e forma canzone piuttosto tradizionali ed infine una voce, quella di Josh Todd, decisamente particolare e caratteristica: sbarazzina quanto, all’occorrenza, malinconica; a mezza via tra l’omaggio sfacciato al grande Steven Tyler e fortissime tentazioni di matrice sleaze/glam. Gli ingredienti parevano insomma esserci tutti, eppure la loro storia è stata più travagliata di quanto i numeri (lusinghieri) lascerebbero, ad oggi, immaginare. Tant’è vero che, dopo il grande successo del debut album, il suo successore (l’ingiustamente bistrattato “Time Bomb”) fu talmente male accolto da pubblico e critica da spingere la band verso un precoce scioglimento perpetuatosi proprio nella seconda metà di quello sfortunato 2001. 
 
Ma si sa, i rocker hanno la pelle dura e Josh Todd, sopravvissuto anche all’esclusione in zona Cesarini dall’embrione da cui nacquero in seguito i Velvet Revolver, riuscì a rimettere in piedi la band richiamando a sé il vecchio compagno d’arme Keith Nelson alla chitarra e rinnovando il resto della line up. Il risultato si rifletté nel loro album forse più riuscito, lo spumeggiante “15”, dato alle stampe nella primavera della 2006. Un lavoro maturo e completo in cui l’hard rock a tinte decadenti di ispirazione classica (con un bagaglio non indifferente mutuato dal punk e dal rock anni ’70) si fondeva alla perfezione con l’indie, l’alternative e il pop anni 2000 a creare undici canzoni piacevoli, orecchiabili e soprattutto longeve all’ascolto.
 
“So Far” apriva le danze all’insegna di un rock ‘n’ roll veloce e robusto, inaugurato dalle vocals filtrate di Todd e da un riff allegro e irresistibile, mentre la successiva “Next 2 You”, sfacciatamente indie e dannatamente divertente, esplorava con grande abilità e spirito d’adattamento territori cari a gruppi come i Jet. Era Tuttavia con la debordante, “Out Of Line” e il gran lavoro di basso (ad opera di Jimmy “Two Fingers” Ashhurst) e chitarre (affidate a Keith Nelson e a Stevie D.), che si entrava veramente nel vivo di “15”, grazie ad una canzone canzone carica e pronta ad esplodere, con un grande Josh Todd, suadente sulle strofe quanto graffiante sul ritornello, tutto rigorosamente di inequivocabile marca AC/DC.
 
Dopo l’accelerazione la frenata, con due semiballate di grande pregio, la pop-eggiante “Everything”, e la splendida “Carousel”, uno dei picchi di maggior qualità di tutto l’album e, d’altro canto, un brano atipico, sorretto da chitarre acustiche di estrazione pop perfettamente orchestrate al fine di far risaltare a dovere le vocals sgraziate e umorali. Un brano semplice e nel contempo straordinario; profumato d’estate, di brezze tiepide e d’aria di mare, un mix di dolcezza e ruvidezza, leggiadro e decadente, in grado stringere il cuore dei rocker più romantici in una morsa d’acciaio. Chiudeva la parentesi più rilassata di “15” l’unica ballata tout-court di tutto l’album: la bella “Sorry”: una love song dai fortissimi accenti pop con la quale i Buckcherry mettevano definitivamente nero su bianco la loro grande ammirazione per gli Aerosmith moderni in virtù di melodie estremamente riuscite, di vocals graffianti più che mai tyleriane e di un arrangiamento sontuoso sulla scia della mitica “I Don’t Want To Miss A Thing”.
 
Con “Crazy Bitch” e spostandoci sul “lato B” ritornava a galla il lato più scatenato e irriverente dei californiani: chitarre sfrigolanti, riff che lambiva il funk e un ritornello tanto ignorante e caciarone quanto incredibilmente trascinante. La doppietta composta da “Onset” e “Sunshine”, pur risultando tutt’altro che sgradevole (in particolare quest’ultima, di nuovo valorizzata da un’ottima performance vocale) cedeva qualcosa in termini qualitativi, ma il vero capolavoro era lì dietro l’angolo, con la spettacolare “Brooklyn”. Si trattava di un altro pezzo atipico per i Buckcherry, questa volta carico di acustiche e slide guitar a dipingere in maniera impareggiabile atmosfere da vecchio West sulle cui note Josh Todd adagiava senza troppa cura il suo tipico verseggiare scazzato e indolente: capolavoro!
 
Chiudeva, infine, alla grande “Broken Glass” un hard ‘n’ indie tosto e veloce, sorretto da ispiratissime chitarre in grado di alternare con estrema naturalezza istrionici rallentamenti con accelerazioni al fulmicotone quanto, ovviamente, da un altro grande refrain su cui il cantante losangelino dimostrava una volta in più (e come se fosse necessario!) cosa significhi fare realmente la differenza.
 
I Buckcherry, così come molti altri gruppi, inventano poco (o nulla) ma hanno dalla loro grande gusto melodico e ottime capacità compositive oltre che una spiccata personalità; tutti tratti caratteristici che permettono loro di unire influenze apparentemente molto differenti tra loro in un tutt’uno uniforme e coerente. La loro scarsa notorietà nel Vecchio Continente non è certo un buon motivo per continuare ad ignorarli: se siete dei maniaci dell’hard rock vecchio stile ma non disdegnate qualche escursione in territori più moderni non fatevi scappare “15” (e magari neppure i restanti capitoli della loro discografia); potreste scoprire di non riuscire più a farne a meno!

Stefano Burini

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