Recensione: A Day At The Races

Di Luis - 9 Aprile 2002 - 0:00
A Day At The Races
Band: Queen
Etichetta:
Genere:
Anno: 1976
Nazione:
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75

“A day at the races”, così come lo splendido album precedente dei Queen “A night at the opera” prende il nome da un celebre film dei fratelli Marx.
E’ senz’altro un disco sottovalutato dalla critica perchè ha avuto l’onore (e l’onere) di uscire l’anno dopo un capolavoro della musica rock mondiale di tutti i tempi. Accusato di essere un album pretenzioso, una sorta di scopiazzatura malfatta dell’album precedente del 1975, è uno dei dischi più validi e freschi di tutta la produzione dei Queen, ed è ingiusto non considerarlo come un prodotto a sé stante, ottimamente confezionato, con canzoni molto belle, alcune delle quali sono dei veri e propri capolavori. La prima canzone, “Tie your mother down”, è senza dubbio uno dei migliori pezzi “duri” di Brian May, per la compattezza del sound e per il grande rendimento espressivo di tutto il gruppo in quello che sarà uno dei pezzi forti del repertorio live della band. Molto divertente e ironico anche il testo che tratta del rapporto conflittuale tra figli e genitori.
“You take my breath away”, da molti considerata una “love of my life 2”, è per me una canzone molto raffinata ed elegante, con un Freddie Mercury che si supera sia al pianoforte che alla voce, sempre più potente. Si tratta comunque di un bel brano, molto delicato, ma che fa storia a sé, senza dover assomigliare a qualche canzone precedente.
“Long away” è un altro contributo di Brian May, che si conferma ottimo compositore, dopo le sue fantastiche creazioni dell’album precedente; è una delicata e malinconica ballata esistenziale semiacustica, cantata dallo stesso Brian. Non è niente di originalissimo per quel che riguarda la musica (ricorda un po’ il primo Morandi), ma risulta un brano orecchiabile e con un testo che a me piace molto.
“The millionaire waltz”, nonostante non sia famosissima, è senz’altro la canzone più originale e divertente del disco: su uno splendido ritmo di Valzer e su virtuosismi di Brian, si sviluppa una canzone variopinta. Tutto il gruppo dà il massimo (ottimo anche John Deacon al basso) in questo brano che cambia spesso il ritmo e passa dall’hard rock di metà canzone fino a partiture che ricordano “L’Angelo Azzurro”, con la Dietrich, e le sagre paesane. Questa canzone è un altro chiaro esempio di quella che è la vena artistica dei Queen negli anni ’70. Un plauso a Mercury per il testo che tratta ricordi malinconici di un tempo che se ne è andato e (forse) non ritornerà piu.
“You and I” è un altro pezzo che solitamente la critica non apprazza molto; io invece (nonostante sia un brano secondario nella produzione Queen) lo trovo un brano delizioso, scritto da Deacon, che narra in maniera delicata di una storia d’amore color pastello. La musica è un pop molto orecchiabile, basato sul suono di una tastiera, con coretti che ricordano la sensazione di quando, ubriachi, si canta l’amore per una persona.

“Somebody to love” è una canzone struggente nel testo, che è in pratica una disperata invocazione di un uomo a pezzi che cerca qualcuno da amare. E’ veramente una delle canzone più celebri e importanti del gruppo, un manifesto della musica dei Queen anni ’70, anche se secondo me è un gradino sotto a Bohemian Rhapsody: non ne ha ripetuto la bellezza, ma ha avuto quasi lo stesso successo. E’ senza dubbio una bella canzone, quasi gospel, molto virtuosa nei cori e negli inserimenti strumentali di Brian, ottimo Freddie Mercury al pianoforte, ma soprattutto come vocalist: riesce a raggiungere vette vocali che fino ad allora non aveva mai toccato. Questo brano verrà interpretato con ottimo successo da George Michael al “Freddie Mercury Tribute” a Wembley nel 1992.
“White man” di Brian May è per me il brano meritevole di meno attenzione, in quanto il suo Rock-blues rischia di piacere solo agli estimatori del genere, risultando del tutto indifferente agli altri.
“Good old fashioned lover boy” è una canzone molto vivace e divertente che tratta esplicitamente dell’amore gay; c’è l’utilizzo contemporaneo di chitarra e tastiera (marchio di fabbrica della band inglese) e i cori rendono veramente molto bene su un ritmo orecchiabile. Questa è una canzone che non è per niente pretenziosa, ma è un brano pop easy listening che punta a intrattenere l’ascoltatore, per passare alla prossima canzone senza “traumi”. “Drowse”, unica composizione di Roger Taylor in questo disco, è una canzone sorprendente, certo non tra i grandi capolavori della band, ma resta un episodio sorprendente. Canta il batterista, e stavolta il sound è un po’ meno ruvido del suo standard compositivo, ricreando con particolari effetti elettronici e psichedelici la sonnolenza delle domeniche pomeriggio inglese. Canzone malinconica e strana, da ascoltare.
“Teo Torriatte (Let us cling together)” è la canzone che io apprezzo di più di tutto l’album, ha il ritornello cantato in giapponese e parla di una triste storia d’amore che quasi strappa le lacrime. Molto orecchiabile, si basa su una musica da tastiera, poi verso la fine soprggiunge quasi con violenza la chitarra di Brian che dà degna conclusione alla canzone e all’album. Ottimi cori, ma non è una novità.
Posso concludere dicendo che questo è un ottimo album, molto vario, per tutti i gusti, che consiglio a chi non conosce i Queen e li vuole apprezzare e a chi li ama, ma non conosce questa opera del 1976.

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