Recensione: A Thousand Little Deaths
Gli olandesi Blackbriar sono senza dubbio una delle band più interessanti del panorama symphonic metal odierno. Giunti alla fatidica soglia del terzo disco in studio e a seguito della prestigiosa firma con la Nuclear Blast, la band capitanata dalla vocalist Zora Cock e dal compositore principale René Boxem, ci offre in questo 2025 quello che è senza dubbio il loro disco più riuscito da tantissimi punti di vista; dalla produzione (curata dal solito inossidabile Joost van den Broek), alle liriche, passando per il songwriting e tutti quegli innumerevoli piccoli dettagli che rendono A Thousand Little Deaths un disco atmosferico, sinfonico ma a tratti anche spettrale e mistico. Un lavoro dove il filo conduttore che lega i testi (scritti interamente dalla vocalist), è proprio il concetto della morte sotto diversi punti di vista.
Il suono della band è molto improntato sulla voce di Zora che è oltretutto il vero e proprio punto di partenza nella composizione di un qualsiasi brano dei Blackbriar; già, perché la band olandese ha la particolarità di partire proprio da questo elemento come pilastro fondamentale nella costruzione di un brano ed in effetti, liriche e testi, vengono prima elaborate dalla vocalist ed a seguito inviate al chitarrista René che si occupa di costruirci sopra la sezioni musicale più adatta. È anche da notare come, a seguito delle lamentele di alcuni fan dopo l’uscita del precedente disco, in questo album la voce di Zora nel mix è ancora più al centro ed un tantino più in alta a livello di volume rispetto al passato, per una band che riesce ad esaltare ancora di più la sua pedina migliore.
La vocalist dei Blackbriar è infatti dotata di una timbrica delicata, dolce, raffinata ma allo stesso tempo ha un che nella sua “delivery vocale” di fragile ed enigmatico, spettrale e vulnerabile, un biglietto da visita perfetto per immergersi nelle sfumature gotiche e sinfoniche del mondo della band, un reame parallelo di pura evasione, dove nel corso delle dieci tracce di A Thousand Little Deaths (per una durata totale di quarantadue minuti), la band riesce a regalarci un platter che pur rimanendo abbastanza confinato nei confini stilistici del genere senza troppe variazioni (non aspettatevi sezioni estreme, voci in growl, parti in blast-beat o progressioni sonore in stile Epica), risulta assolutamente vincente nella totalità della sua durata.
Nonostante la prevalenza della sezione sinfonica ed i contorni atmosferici, il peso delle chitarre, del basso e della batteria si sentono e appaiono importanti sin da subito se si pensa all’opener Bluebeard’s Chamber, dove la componente metal prende decisamente il volo.Ma il suono dei Blackbrair è capace di arricchirsi di tante altre piccole sfumature e dettagli a partire dall’uso del pianoforte, del violoncello, oppure del flauto, suonato da Jeroen Goossens in un brano come la conclusiva Harpy.
Il melodramma del finale di Bluebeard’s Chamber ci mostra una delle sfaccettature di questo mistico viaggio autunnale dai contorni gotici, una perfetta colonna sonora da associare ad un film di Tim Burton, un’epopea dark ispirata da svariati riferimenti letterari e fantastici, ma che spesso e volentieri sono delle fonti di simbolismi e metafore come rappresentazione del mondo interiore della vocalist Zora. Non manca qualche sporadico assolo di chitarra come in The Hermit And The Lover, mentre abbondano le sezioni più teatrali e cinematiche, con ritornelli davvero d’impatto se pensiamo a quello di The Fossilized Widow, uno dei tanti singoli estratti da un album dove in effetti il potenziale è talmente elevato che quasi ogni pezzo poteva rappresentare un buon antipasto da offrire agli ascoltatori prima dell’uscita del disco.
I Blackbriar hanno, tra l’altro, questa magnifica capacità di spezzare improvvisamente il “flow” di un brano con queste sezioni a mo’ di cantilena dark, sorrette unicamente dalla voce di Zora che suonano enigmatiche e romantiche allo stesso tempo e che riescono a costruire la tensione e l’anticipazione per il proseguito della canzone, o anche, semplicemente, ci offrono quella sensazione di brivido lungo la schiena prima che il pezzo in questione ci trasporti verso altri lidi. Zora è inoltre una splendida interprete delle emozioni che trasudano da questo platter, riuscendo a riportare in vita sensazioni contrastanti di drammi, amori e odio, come per esempio nel brano My Lonely Crusade “I have a temper, I have a rage, loving you madly from inside my cage, where I’m the leader of my lonely crusade”, o ancora quella sensazione di apatia sconfortante e il desiderio di rappropriarsi di quel qualcosa di tragicamente imperfetto che dava tuttavia una linfa vitale ed emotiva alla propria esistenza “My soul is in a state of atrophy, wish you’d come back into my life and make it a catastrophe” (The Catastrophe That Is Us).
Green Light Across The Bay potrebbe ricordare una versione metal degli Auri (progetto parallelo di Tuomas Holopainen dei Nightwish) e il suo titolo, azzeccatissimo, in effetti racchiude perfettamente quel senso di libertà e di “luce in fondo al tunnel” che questo brano trasmette. In molti pezzi dei Blackbriar si ha la sensazione di essere intrappolati in un mondo affascinante sì, ma sempre dalle tinte piuttosto oscure da cui è difficile uscire, ma questo brano ha la particolarità di offrire quel senso di evasione in un mondo di luce eterea, quasi come fosse l’ennesima dimensione parallela offerta dalle sonorità della band.
La drammaticità prosegue con I Buried Us che è scandita da un riffing più pesante, per un pezzo sicuramente più denso da quel punto di vista. La “morte simbolica” di una relazione che poteva essere e non è mai stata e la fine di quel desiderio, è meravigliosamente esplorata da delle liriche raffinate e pregne di simbolismi “I got lost in the garden and crossed a boundary, where the garden meets wilderness I felt the shift profoundly, we would’ve been unlikely, we would’ve been fractious and in my mind I buried us right beneath the Taxus “(quest’ultimo simbolo di rinascita e del ciclo della vita sia nella cultura pagana che in quella cristiana).Le influenze folk di Harpy, il suo magnifico pianoforte sorretto dalla sezione ritmica con quell’aurea di drammatico romanticismo ci avvia verso la conclusione del platter, tra suoni della natura e grandiose sinfonie. “I’ve died a thousand little deaths, human vulture snatch my body away, take me into your nest, high up the mountain and lay me to rest”.
In conclusione A Thousand Little Deaths non è solamente un piccolo tassello nella crescita della symphonic/gothic metal band olandese, ma risulta a tutti gli effetti essere un passo enorme nella ancora risicata discografia di una band che sta diventando sempre più rinomata e rispettata nel suo filone. Un viaggio dalle tinte drammatiche e teatrali, romantiche ed evocative, una produzione di livello, un songwriting eccelso, uno storytelling articolato e ben scritto e delle linee vocali, quelle di Zora, che risultano essere il fiore all’occhiello del disco. Se avete amato album come Lucidity dei Delain, The Silent Force dei Within Temptation o Songs Of Love And Death dei Beyond The Black, ecco un altro disco che non potete perdervi. Con l’arrivo dell’autunno in particolare, A Thousand Little Deaths potrebbe essere davvero la colonna sonora perfetta da associare alla malinconia e ai colori di questa enigmatica ma allo stesso tempo affascinante stagione.