Recensione: Architect of Hope

Di Simone Volponi - 9 Gennaio 2016 - 0:00
Architect of Hope
Etichetta:
Genere: Power 
Anno: 2015
Nazione:
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65

Giunge al quarto capitolo il progetto messo in piedi dal chitarrista australiano Stu Marshall, che negli intenti cerca di inserirsi nel carrozzone delle metal opera al seguito dei celebri Avantasia ed Ayreon. Purtroppo Stu non sembra, per ora, disporre del loro stesso budget, perciò deve accontentarsi di schierare una manciata di vocalist rinomati, come Ralph Scheepers (Primal Fear, ex Gamma Ray), Rick Altzi (Masterplan), Jeff Martin (Racer X) Mike Di Meo (ex Riot, ex Masterplan) completando poi il cast con vari comprimari provenienti dalle retrovie del metal, i cui nomi sono pressochè sconosciuti.
Va anche detto che il volenteroso Marshall non è di certo un fine dicitore dello strumento come Lucassen, nè tantomeno gode del songwriting magico di Sammet. La proposta degli Empires Of Eden è costruita su riff pesanti e taglienti di priestiana memoria, condito da virtuosismi shred di scuola Malmsteen, ad incorniciare canzoni spacca muri dove l’impostazione del cantato è prevalentemente acuta, sempre su toni alti da screamers.

La doppietta in apertura è ottima. Con Vanish In The Light ci si aspetta una partenza tutta sprint, invece troviamo un bel mid-tempo con inizio orchestrale, che avanza quasi in stile Black Sabbath sotto steroidi. La voce di Rick Altzi si erge sontuosa dimostrandosi ancora una volta singer degno di nota, e anche se il refrain sa di già sentito poco importa, finché funziona. E qui funziona alla grande. Epico.
Segue a ruota la titletrack ed entra in scena Ralph Scheepers, che, diciamolo, una collaborazione non la nega mai a nessuno. Il pelato tedesco piazza subito un bell’acuto dei suoi, e procede sicuro e portentoso per tutto il pezzo, dando quel tocco in più ad una buona composizione, anch’essa dotata di ritornello accalappia headbanging.
La produzione è al massimo volume, da spacca orecchie, e purtroppo non giova andando avanti con l’ascolto, togliendo parecchio respiro ai brani. Questo è il principale difetto dell’album, oltre a non mantenere alto il livello compositivo in tutta la scaletta. In virtù di ciò, procediamo quindi l’analisi a balzi
Da segnalare l’ottima Six Feet Under dal ritornello insistito e gagliardo, eseguita da Jeff Martin, presentatosi al microfono in buona forma, mentre l’altro highlight è la conclusiva Holy Pharao, dall’intro parlato ed oscuro, per poi mostrarsi cadenzata, ovviamente pesante, e graziata dalla performance sempre all’altezza di Mike Di Meo, oltre che dalla presenza dell’ex storica ascia dei Manowar, Ross The Boss. Sono proprio loro a mostrare come si possa scrivere un bel pezzo di metal classico dai tratti epici, senza per forza incatenarlo all’altare del virtuosismo sfrenato e dei riff spaccaossa.
Per il restante pacchetto di tracce nel mezzo, piace Weaponize cantata dall’americano Carlos Zema (già apprezzato nella metal opera Soulspell), dove è Metal Mike Chlasciack a curare l’assolo. Mentre qui e là Stu Marshall piazza qualche variante al suo stile, inserendo “fischi” alla Zakk Wylde in Push The Limits, oppure passaggi simil Van Halen anni ’80. Curiosa infine la presenza su Killing As One di due virtuosi giapponesi (mercato che evidentemente interessa ai Empires of Eden) che si sa, vedono i guitar hero come moderni samurai e non si fanno pregare nel far correre all’impazzata le dita sul manico.

In conclusione, Architect Of Hope si dimostra un buon ascolto, lasciando una manciata di ottimi pezzi, pur restando un prodotto di nicchia. Se Stu Marshall vorrà portare i suoi Empires Of Eden ai livelli dei propri numi tutelari, in futuro dovrà variare la proposta e magari alleggerire l’impatto sonoro troppo soffocante.

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70