Recensione: Area 666
Non tutti riescono a fare il botto dopo pochi mesi dalla nascita. Anzi, magari occorrono anni e anni di dura gavetta per arrivare al tanto agognato contratto discografico e stampare il primo full-length.
Gi svedesi Turbocharged fanno proprio parte di questa schiera di band eternamente condannate, o quasi, a giacere nei bassifondi dell’underground e a sopravvivere di pane e passione. Formatisi nel 2000, sono stati necessari due lustri per comprendere che la formazione a tre era quella ideale per la loro musica e quindi, dopo tre demo (“Branded Forever”, 2008; “Arrogantus Metallus”, 2009; “Promo “AntiXtian” 2010”, 2010), nel 2010 è arrivato il debut-album, “AntiXtian”. Un EP (“Christ Zero”) nel 2012 e, quindi, il secondo lavoro di lunga durata, “Area 666”, sotto l’egida della label Chaos Records.
Ronnie Ripper (basso e voce), Old Nick (chitarra) e Freddie Fister (batteria), come si può intuire anche dai rispettivi nick – invero triti e ritriti – , propongono una sorta di death metal arcaico, assai prossimo al thrash di (più) vecchia data; che definire rozzo e involuto è poco. La scelta di avere un line-up basata su un cantante non specialista e su una sola chitarra incide pesantemente, e non poteva essere altrimenti, sul loro sound. Un sound che rimanda, neppure tanto velatamente, ai ‘power-trio’ che – negli anni ’80 – erano sinonimi di metal estremo e ferocia musicale. Motörhead, Bulldozer, Razor ed Hellhammer/Celtic Frost sono infatti i primi tre/quattro nomi che vengono in mente una volta messo nel lettore “Area 666”.
Al contrario degli act sopracitati che, chi più chi meno, hanno fatto la Storia del metallo a uso e consumo per i più duri e cattivi, i Nostri, però, si raffigurano come dei banali cloni. A parte l’assenza del più insignificante barlume di originalità, tutto – anche i testi – è già stato scritto e riscritto. Già la simbologia anti-cristiana che campeggia in copertina, per quanto figurativamente efficace, ha abbondantemente fatto il suo tempo; avendo connotato centinaia se non migliaia di cover disegnate nel citato periodo storico compreso fra il 1980 e il 1990. Messo a lato tale anacronismo grafico, è tuttavia la musica a fare acqua pardon sangue da tutte le parti. L’agghiacciante monotonia della voce di Ronnie Ripper è forse l’elemento che caratterizza più marcatamente, in peggio, “Area 666”. Il semi-growl che erutta dalla sua ugola non è male, come impostazione di base, ma è privo di variazioni di tono giacché, anche a intestardirsi nel ripetere gli ascolti, tutte le song del disco appaiono esattamente uguali fra «uh!», «oh!» e urla varie. I riff partoriti dalla sei corde di Old Nick sono scolasticamente corretti e pure gustosamente marci, ma probabilmente fra di essi non ce n’è neppure uno che non sia già stato suonato da qualcun altro (idem per i soli…). Dato atto dell’ingiudicabilità delle linee di basso per via di un totale anonimato delle medesime, il drumming di Freddie Fister non va oltre un sempiterno quattro quarti accelerato, a malapena irrobustito dalla doppia cassa.
Così, l’impianto complessivo del suono dei Turbocharged si rivela totalmente insufficiente a variare una struttura musicale immobile e involuta in se stessa. Qua e là ci sono degli intarsi ossianici che sanno di zolfo, questo è vero, ma essi – esattamente come lo stile del combo di Forshaga – spalancano le porte del dejà-vu anche al più razionale e meno visionario degli ascoltatori. Peraltro è impossibile, almeno per chi scrive, citare una canzone invece che un’altra, tutte intrappolate in un songwriting tanto elementare quanto ripetitivo nella sua scarna formula di base.
A questo punto sorge spontanea una domanda. La più semplice ma anche la più complicata: «perché?». Perché, cioè, una formazione così scarsa in tutto e per tutto gode del supporto di una casa discografica ufficiale mentre centinaia di altre realtà, infinitamente più meritevoli, giacciono nel dimenticatoio?
Difficile rispondere, appunto…
Daniele “dani66” D’Adamo
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