Recensione: Au peuple de l’abîme

Di Stefano Santamaria - 7 Febbraio 2018 - 0:00
Au peuple de l’abîme
Band: Heir
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 2017
Nazione:
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82

Delicata malinconia scorre lungo le trace dei francesi Heir, progetto che approda alla propria seconda uscita in studio per mano della label Les Acteurs de l’Ombre Productions.  Parliamo di metal e di sludge, un connubio che prende alcune peculiarità dei due filoni, mescendoli sapientemente.

Il gusto per le atmosfere cupe, in qualche modo anche raffinate di un certo tipo di black metal più recente, trova qui spazio tra un pantano di suoni che pongono l’accento sull’afflizione e difficoltà che si incontrano idealmente nella vita. Ci sorprende come, nonostante vi siano laceranti aspetti core, in più punti ci si senta incredibilmente leggeri, sospesi tra un cielo nero pece e una palude in cui rancori e sofferenza restano sepolti.  Immagini corrono sotto uno specchio d’acqua tremula e sporca, vibrazioni di un’eco lontana che ci raggiunge, disperdendosi poi per un vento gelido che l’anima black del progetto ci soffia addosso.

Ritmi incalzanti e armonie si alternano senza soluzione di continuità, scalpiccio su fango che lentamente svanisce. “Au peuple de l’abîme” non ha un vero e proprio filo conduttore, dissonante ma mai amante del virtuosismo o della voglia di stupire l’ascoltatore. Emozioni e competenza tecnica convivono in questo album che concettualmente si può anche definire tranquillamente avantgarde. La solennità doom e la degenerazione sludge si bordano di un’eleganza inaspettata, un tocco di melodia che ci ricorda Aosoth, Merrimack e Dark Fortress, in una chiave di lettura però molto personale e che non ci sentiamo di appiccicare nello specifico agli Heir.  L’album cresce  traccia dopo traccia in un epico turbinio che fa correre un brivido lungo la schiena agli amanti dell’espressione più delicata del black.

 L’uso delle chitarre e l’aere mesta piombano poi in un tenebroso e violento martellare che raggela in sangue in ‘Cendres’, l’episodio del lotto più dinamico e graffiante. Tutto ciò è prova del gelo che questi musicisti sanno trasmettere, senza poi disdegnare quella riflessività che sottovoce riesce a raggiungere l’anima dell’ascoltatore. Nella tormenta che tutto pare spazzare via, un luogo sicuro lo si intravede, rappresentazione di una band che vi consigliamo caldamente di conoscere e che non vi deluderà. Grazie Heir.

Stefano “Thiess” Santamaria

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