Recensione: Back To The Origins

Di Marco Tripodi - 5 Aprile 2019 - 8:00
Back To The Origins
Band: Ruxt
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 2019
Nazione:
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72

Il fatidico terzo album, quello che da che mondo discografico è mondo discografico viene comunemente indicato come il capitolo della consacrazione, quello che proietta la band nella maturità e che tramanda (o ridimensiona) il nome ad imperitura memoria; anche i liguri Ruxt ci sono arrivati, dopo due release tra 2016 e 2017. Sistemata la line-up con l’ingresso in formazione del batterista Alessandro Fanelli proveniente dagli Ashen Fields (che prende il posto di Spallarossa dei Sadist), i ragazzi del roster della Diamond Productions/Nadir Promotion sfornano il terzo assalto, in attesa di scoprire il responso di pubblico e addetti ai lavori. Il cantante Matt Bernardi proviene dai Purplesnake e tra i nomi fatti per etichettare il gruppo all’epoca del debut “Behind The Masquerade” figurano Gotthard, Dio, Whitesnake e Jorn. Il quadro si delinea abbastanza chiaramente quanto a influenze e potenziali riferimenti stilistici. Personalmente durante l’ascolto di “Back To The Origins” (pure questo titolo non passa inosservato) mi sono immaginato un cocktail di Whitesnake, Strana Officina e Sinner. I primi svettano sugli altri come influenza evidentemente primaria dei Ruxt. Senza nulla togliere alla loro propria identità ed allo sforzo di delineare una fisionomia autoctona riconoscibile, penso sia innegabile che la band di Coverdale, e segnatamente quella di “1987“, risalti a caratteri cubitali nel sound dei Ruxt. Complice la timbrica vocale calda e virile di Bernardi (leggermente più rude e metallica però rispetto al baronetto inglese), ma anche coinvolgendo come complici tutti gli strumenti, il rock bollente e grumoso dei Ruxt ha più di un accento echeggiante gli Whitesnake più robusti, guitar oriented e heavy (quelli appunto del fragoroso “1987“).

Nella congiuntura tra hard rock e metal si inseriscono anche possibili rimandi ad altri colleghi di stampo sempre molto classico, quadrato e stentoreo, vedi appunto i nostrani Strana Officina, soprattutto nell’approccio di riff e ritmiche (“Here And Now“, “All You Got“) o i Sinner del buon Mat Sinner, sempre attenti a elargire un hard ‘n’ heavy di qualità, legato alla tradizione ma mai stantìo o obsoleto. L’incipit di “I Will Find A Way” mi ha persino fatto venire in mente gli ZZ Top, sebbene poi la traccia prenda dei binari decisamente meno confederati e più schiettamente metallici; dunque la congerie di cromatismi a disposizione dei Ruxt è davvero ricca e variegata, e tuttavia sempre coerente nonché intinta di collaudata ed esemplare familiarità con gli stilemi più classici e istituzionali del rock con la R maiuscola. “Back To The Origins” sfrutta una produzione di qualità che dona spessore e profondità alle composizioni già buone di per sé. Forse c’è un leggero calo nella seconda metà del platter, semplicemente perché le varie “Train Of Life“, “Another Day With Your Soul“, “Come Back To Life“, si succedono – a mio personale gusto – con un mordente leggermente minore rispetto al resto, ma il colpo di coda arriva con l’accoppiata “Tonite We Dine In Hell” e con la title track a chiudere un album decisamente positivo ed interessante. Segnalo come hit, una spanna sopra le altre, la ottima “River Of Love“, che mi sono ritrovato a canticchiare per giorni e giorni dopo l’ascolto. Buona prova per i Ruxt ai quali secondo me rimane oramai solo da decidere se affrancarsi in modo più netto e coraggioso dai tanti numi tutelari del rock “delle origini”, o vestire definitivamente i panni di affidabili interpreti di un canone immortale e sempre fresco, nonostante il volgere dei decenni.

Marco Tripodi

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