Recensione: Black Tides Of Obscurity

Di Alessandro Marrone - 14 Aprile 2020 - 0:00
Black Tides Of Obscurity
Band: Earth Rot
Etichetta: Season Of Mist
Genere: Black  Death 
Anno: 2020
Nazione:
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68

Uno dei lati positivi della facilità di comunicazione e interazione offerta dalla tecnologia è che possiamo virtualmente fare il giro del mondo in 8 secondi anziché 80 giorni. D’altro canto, uno degli aspetti negativi è che diventa molto facile perdersi nel marasma di input che ci bombardano la corteccia celebrale e la musica, neppure quella metal, non ne è esente. Con un pizzico di fortuna, pazienza e l’aiuto di etichette sorprendenti come la Season of Mist, riusciamo però a scovare gruppi interessanti come gli australiani Earth Rot, per l’appunto al debutto per l’etichetta francese. È dall’isola ai confini del mondo che viene il terzo capitolo discografico della black/death metal band capitanata da Jared Bridgeman e Tom Waterhouse, rispettivamente basso e voce e chitarra, ai quali si affiancano il batterista Daniel Maloney e il secondo chitarrista Colin Dickie.

Quello degli Earth Rot è un sound estremamente compatto, catalogabile a cavallo tra due generi vicini poiché entrambi estremi, ma tutto sommato lontani per filosofia e significato. Black Tides of Obscurity, così si intitola il disco in questione, fatta eccezione per la voce a tratti graffiante di Bridgeman, sembra trovarsi più a suo agio nella parte death metal del discorso di cui sopra, ma come nel caso di tante altre band più o meno famose, una spiccata inclinazione per le altissime velocità e per un utilizzo più acuto della linea vocale, sapranno come soddisfare chi preferisce maggiore enfasi sul lato oscuro dell’opera e facilmente identificabile nella opener Dread Rebirth e nella successiva New Horns. Ciò che non si può affatto recriminare agli Earth Rot è la voglia di sperimentare, come nel groove iniziale della ottima Towards A Godless Shrine, che ben presto riesce a mostrare i mille tentacoli con cui ti afferra e intende tramortirti. Il sound horrorifico, particolarmente evocativo potrebbe rappresentare la perfetta colonna sonora per un Edgar Allan Poe 3.0, una sorta di viaggio introspettivo negli spettri che infestano una dimora abbandonata, nella quale a seconda della porta che si va a spalancare, riesce a trasparire più il lato death metal di quello black, o viceversa. È certo che le ritmiche siano potenti e che basso e batteria donino profondità alle parti più ritmate, ottimo contraltare che consente all’ascoltatore di restare incollato e domandarsi chissà cosa potrà arrivare al brano successivo. In questo ambito Unparalleled Gateways To Higher Obliteration ne è un autentico manifesto.

Ancestral Vengeance riporta alla mente i primi Immortal ed è qui che la vena black esce maggiormente fuori. L’atmosfera diventa gelida, le chitarre lacerano velocissime pennate sorrette dalla versatile voce di Bridgeman e condotti dalla furibonda doppia cassa di Maloney, mostrando come gli Earth Rot siano in grado di sentirsi a proprio agio in entrambi i mondi, quello del fuoco e quello della notte, quest’ultimo forte di un valore atmosferico più netto e che trova maggiore enfasi nella teatralità del brano, sino ad ora il migliore dell’album e capace di fare il paio con l’altrettanto brillante e priva di fronzoli The Cape Of Storms. La seconda metà del disco si dipana tra brani più veloci che nel giro di pochi minuti fanno quasi sembrare l’incipit di Black Tides of Obscurity come parte di un lavoro totalmente differente, di un’altra identità. Nonostante le ritmiche mantengano tonalità prettamente basse o comunque più distanti da quelle che capita di trovare su un qualsiasi album black (Serpent’s Ocean), gli Earth Rot appaiono come una macchina che ha gli ingranaggi oliati e che non intende fermarsi. Scherzavo! Mind Killer salta di nuovo la staccionata e con un riffing molto molto groove sembra voler contraddire ciò che stavamo cominciando ad accettare e reputo che ognuno di voi avesse altrettanto delineato nella propria testa. Sul finale troviamo Unravelling Vapour of Sanity, la quale prova in tutti i modi di celare i segni di affaticamento compositivo e la conclusiva Out In The Cold, un intrigante occhiolino a quel blues che quasi un secolo fa ha venduto l’anima al diavolo molto prima che il metal fosse anche solo che un’idea.

Black Tides of Obscurity è un album ben suonato, ben prodotto e non certo privo di idee. Quello che gli manca è la volontà di prendere una direzione, perché lo sappiamo tutti che in alcune circostanze tenere il piede in due scarpe sembra la soluzione più semplice, ma non la più azzeccata e questo neppure in ambito musicale dove si ha a che fare con l’arte e quindi con la possibilità di prendersi libertà stilistiche di ogni tipo. Alla fine si tratta pur sempre di fornire un riferimento che nell’arco dei tre quarti d’ora che gli Earth Rot ci mettono a disposizione viene a mancare in più di un’occasione. Nel complesso si tratta di un buon prodotto, ma non stento a credere che saranno più coloro che apprezzeranno una metà di esso, piuttosto che l’insieme delle parti.

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