Recensione: Born of the Cauldron

“Born of the Cauldron”, primo lavoro degli americani Cauldron Born, è un album strano. Viene pubblicato nel 1997, ma ciò nonostante non condivide granché dello spirito di quegli anni. La musica dei Cauldron Born, infatti, è marchiata a fuoco dallo stigma del decennio precedente e ne enfatizza all’eccesso le caratteristiche: un heavy metal di stampo tradizionale e dal retrogusto epico e tecnico, il cui approccio testosteronico e cafonissimo si sposa ad un comparto lirico che spazia dalle leggende arturiane ed egizie agli scritti di Howard, Moorcock e Lloyd Alexander. “Born of the Cauldron” consta di otto tracce, otto racconti di sword & sorcery oscuri e belligeranti in cui epica, fantasy e folklore celtico si mescolano ad un metallo rovente ed arcigno, sostenuto da una produzione polverosa ma anche abbastanza pulita da permettere di identificare ogni strumento. Il quartetto di Atlanta esibisce una musica combattiva, spessa e tecnica, ai limiti del progressive, frutto di un lavoro delle chitarre complesso e concentrico, una sezione ritmica articolata e una voce teatrale e squillante. Echi di Fates Warning, Helstar e di certi Iced Earth si fanno strada pian piano nell’intricata matrice dei nostri, colorandone le pieghe ma senza minarne la personalità, mentre la chitarra di Bentley viene spesso lasciata libera di tessere trame barocche e soli variopinti ma senza perdere di vista il quadro generale. L’apporto di Danny al microfono crea un gioco di dissonanze con la parte strumentale inizialmente destabilizzante, ma che pian piano entra in circolo permettendo di inquadrare le intenzioni dei nostri.
Si parte subito drittissimi con “Crusader”, marcia sanguigna introdotta da un riff palpitante e un acuto prorompente di Danny. Il piglio narrativo del pezzo si scontra con le scorribande vocali a cui accennavo prima, iniziando a rodere punti di riferimento all’ascoltatore tra un cambio di tempo e l’altro, consentendo al mastermind Howie Bentley di mettere in mostra il suo estro alla chitarra. La seguente “The Sword’s Lament” si apre su un intreccio di voci dissonanti che sfuma poi in un riff nervoso. Il pezzo, sostenuto da una sezione ritmica frastagliata ed un Danny decisamente sopra le righe, si ammanta di un piglio schizoide e maligno fino all’apertura enfatica del solo, che a sua volta insinua nella sua trama elementi più inquieti prima di tornare a sciorinare follia musicale prima del finale vorticoso. “Synchronicity At Midnight/A Baying of Hounds” si spinge ancor più in profondità nella sregolatezza musicale, distendendosi su tempi frastagliati e chitarre caotiche e dal possente piglio progressive e tratteggiando un’atmosfera frenetica ma che, forse proprio a causa del suo andamento così stralunato, non lascia il segno come ci si aspetterebbe. Con “Imprisoned with the Pharaohs” ed il suo attacco minaccioso si torna in guardia. Il pezzo sfrutta un tappeto ritmico arcigno e più classicamente heavy per dispensare riff maschi e melodie sghembe, a tratti inquiete, farcendo il tutto con atmosfere esotiche che si fanno largo di tanto in tanto e sostenendo una voce che alterna cupe litanie a falsetti irosi. Il basso si appropria dell’incipit di “The Final Incantation/In the Dreaming City”, serpeggiando sopra il pelo dell’acqua per ampi tratti del lavoro e donandogli un fare più stradaiolo. Il cambio di passo al minuto e mezzo ammanta il brano di una nuova energia che pulsa tra brevi squarci dal piglio eroico e rapide scudisciate heavy rock, mentre il finale si tinge di solennità prima di sfumare in un arpeggio dimesso. “In Fate’s Eye of a King” torna a prendere di petto la situazione, con un chitarrismo serrato che si avvinghia su una ritmica pulsante dando vita ad un brano dall’intenso valore narrativo e dai ripetuti cambi d’umore. La canzone si avvolge spesso su se stessa, togliendo punti di riferimento all’ascoltatore col suo fare vorticoso e claustrofobico, concedendo tempo per rifiatare solo in rare occasioni. Si arriva ora alla title track, aperta da una melodia acida che di colpo si sviluppa in un pezzo nervoso, scomposto, in cui la sregolatezza prog già incontrata in precedenza trova la sua espressione più evidente. La chitarra fa il bello e il cattivo tempo, seguita a ruota dal resto del gruppo e dalla voce squillante e beffarda di Danny, le cui declamazioni intridono il pezzo confezionando una giostra sonora priva, anche qui, di punti di riferimento stabili. Il compito di chiudere il sipario su “Born of the Cauldron” è affidato ai lugubri panneggi di “Unholy Sanctuary”: un brano cupo che si distende su ritmi lenti, inesorabili, innestati dalle litanie vocali di Danny e dagli sporadici squarci luminosi di chitarre meno disperate. L’improvvisa accelerazione che apre l’ultimo quarto del pezzo conduce ad un breve segmento più bellicoso, che in un attimo sfuma in un finale solenne e sfumato e pone il sigillo su un album massiccio ma decisamente diverso dal solito.
Come scrivevo in apertura, “Born of the Cauldron” è un album strano. Ad un ascolto distratto sembra un guazzabuglio di influenze apparentemente inconciliabili, un’insalatona musicale tenuta a regime dalla cafonaggine del gruppo e poco altro e destinata ad una nicchia minima di ascoltatori. Questo è assolutamente vero, ma se si concede un ascolto più attento al lavoro le sue numerose qualità iniziano a dispiegarsi pian piano, rivelando un lavoro ambizioso e appassionante che trasuda amore per il metallo e doti tecniche inaspettate messe al servizio delle canzoni e non del proprio ego. Ascolto consigliato, senza contare che, a quanto pare, la High Roller Records ha intenzione di ristamparlo a breve insieme al resto della discografia dei nostri, rendendo possibile a tutti l’acquisto di questa rarità senza spendere la fortuna che ho dovuto sborsare io. Buona caccia, gente.