Recensione: Circus Of Fools

Di Mattia Di Lorenzo - 1 Aprile 2007 - 0:00
Circus Of Fools
Band: Machine Men
Etichetta:
Genere:
Anno: 2007
Nazione:
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70

Si dice che non bisogna giudicare un libro (o un album…) dalla sua copertina. In realtà lo si fa spesso. E talvolta si ha ragione. Questo è il caso dell’ultimo album dei Machine Men, ormai da un mese in tutti i negozi di musica metal. Per quanto conoscessi abbastanza bene il gruppo e mi fossi in primis lasciato trascinare dall’ondata di commenti che incoraggiavano a “seguire” e “tenere d’occhio” una band dal radioso futuro, negli ultimi due anni mi sono completamente dimenticato dell’esistenza dei Machine Men (e credo di non essere l’unico). Finché non vedo, scorrendo le nuove uscite, questa copertina rosso fuoco, che fiammeggia troneggiante nel mezzo del nero più cupo della maggioranza degli album. È rossa, appunto: evidente ed ostentata, orgogliosa e quasi vanitosa. È lì per farsi vedere, e ci riesce benissimo. Semplice e senza fronzoli, ma a suo modo anche ricercata, con le barocche ali d’angelo che richiamano il logo “a pipistrello” del gruppo. La curiosità mi attanaglia, allora. “Mi piace. – Dico – Devo averlo!”
Ottimo lavoro da parte dell’artwork designer Carsten Drescher! Meccanismo pubblicitario perfetto! Vedremo se anche questa recensione ne trarrà vantaggio mediatico, grazie a questa bella copertina…

Scemenze a parte, non mi sono dilungato in una serie infinita di aggettivi per nulla: l’album è davvero quello che sembra. Nei pregi e nei difetti. Ovvero, così come l’artwork è semplice e diretto, le melodie sono immediatamente assimilabili e azzeccate, le chitarre rumoreggiano senza tregua, ma non incupiscono il carattere generale di luminosità e potenza.
Anche stavolta il bollino rosso sentenzia: la “nuova sensazione dalla Finlandia” è però stavolta definizione solo di genere, senza più tirare in ballo gli Iron Maiden; “heavy metal melodico”, si dice. E in effetti, mi sentirei di affermare che con questo album Antony e soci riescono a liberarsi davvero del giogo-Dickinson. Menzione speciale la meritano le prime due canzoni, “Circus of Fools” e soprattutto “No talk without the giant”, da cui è stato anche tratto un video di stupefacente energia, che può essere visto sul portale Youtube.

Si diceva che ci sono anche delle ali, nell’artwork: la vena più ricercata trova rispondenza nei testi delle canzoni, che, secondo la riflessiva tradizione nordica, non si limitano a temi futili da “happy metal” o alle solite storielle fantasy, ma raggiungono un buon lirismo, pur senza sconfinare nel campo della poesia pura, dove i Sonata Arctica rimangono maestri inimitabili. (giusto per citare un gruppo che in qualche modo aleggia nell’ispirazione dei testi…)
Pregio/difetto principale, si diceva ancora, l’evidenza. Che tradotto in musica, vuol dire grande consapevolezza dei propri mezzi, ma anche eccessiva smania di apparire. Ovvero: fretta di fare uscire un album buono, ma non completo al 100%. Ci tengono a farsi vedere, a mostrare che ci sono, e sono in gran salute. Buona cosa, in effetti. Visto che, come altrimenti dimostrato, molta gente li dimenticherebbe. Gran quantità di guest musicians nelle canzoni principali, inoltre: tra i nomi spicca quello di Marco Hietala, l’appariscente bassista dei Nightwish, qui in qualità di corista nella suite finale “The Cardinal Point”.
La qualità generale è molto superiore a quella dei due predecessori, ma anche in “Circus of Fools” ci sono delle cadute di stile; o meglio cadute “nello stile”, in cui i Machine Men ripetono all’infinito le buone idee che pur hanno, suonando “alla maniera di” se stessi. In questo senso cito “Tyrannize”, inutile canzone-riempitivo di meno di tre minuti, o “Dying without a name”, la cui strofa è identica a “Rebirth” degli Angra. Senza contare che l’intero album conta solo 9 titoli, e la lunghezza media delle canzoni è di appena 4 minuti… Non si tratta, qui, di potenzialità non adeguatamente sfruttate, perché una maturazione si vede, e decisa! Questa è superficialità bella e buona, o frivolezza che dir si voglia, il che, forse, è ancora più grave.

Non mi soffermo, stavolta, sulle singole canzoni: ho già indicato i punti di maggiore interesse, come anche i peggiori abbagli. Aggiungo, in generale, un elogio ad Antony per il suo apprezzabilissimo tentativo di evoluzione verso timbriche diverse, talora più gravi, talora più cattive; nonché al gruppo in generale per le sperimentazioni in tempo ternario o composto, quali in “Border of the Real World” o nella bella “Ghost of the seasons”.

A chi consiglio questo album, in conclusione? Risposta: a tutti e a nessuno. A tutti perché siamo di fronte a un gruppo che ha delle cose da dire, e ferocia da vendere per farsi ascoltare. A nessuno perché al prezzo a cui è venduto è un abominio, considerato che è poco più di un EP. La tattica per raggiungere un pubblico più ampio, in questo senso, fallisce. Vedete voi. Una cosa è certa (qui io lo ripeto, e sono sicuro che me ne dimenticherò ancora…): questi qui vanno seguiti e tenuti d’occhio. Se ne sentirà parlare di nuovo.

Tracklist:
1. Circus of Fools 
2. No Talk Without the Giant
3. Ghost of the Seasons 
4. Tyrannize  
5. The Shadow Gallery
6. Where I Stand 
7. Border of the Real World 
8. Dying Without a Name 
9. The Cardinal Point 

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