Recensione: Clearing The Path to Ascend

Di Gianluca Fontanesi - 24 Gennaio 2015 - 14:00
Clearing The Path to Ascend
Band: YOB
Etichetta:
Genere: Doom 
Anno: 2014
Nazione:
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91

Italiani! Elettori! Inquilini, coinquilini, casigliani! Il 2014 musicalmente non è ancora stato archiviato, meglio farlo col botto e con quello che probabilmente risulta tra i picchi più alti dell’intera annata. Partiamo subito con una curiosità: il doom, genere che notoriamente suona una nota ogni 20-30 minuti, è il sogno di ogni redattore, perché ci vogliono sempre due secondi a inserire una tracklist di un pezzo solo, massimo uno e mezzo per 75 minuti medi di durata. Generi come il grind invece, alcune branche del brutal-death e altre amenità hanno in media 20-30 canzoni per disco i cui titoli rendono onore alla supercazzola, prematurata e non. Ci si mette di meno a scrivere la recensione che la scaletta dei pezzi. Il perché verrà probabilmente analizzato a breve da Voyager e, dopo sedici puntate, l’ovvia conclusione sarà l’imputare il tutto ai templari, talmente inflazionati da fare anche la campagna acquisti dell’Inter! Dette un po’ di minchiate (appunto, il doom fa risparmiare tempo per poterlo impiegare in maniera barbina), veniamo a noi.

Capolavoro’, vediamo cosa ci dice il dizionario: «Opera eccellente; l’opera migliore di un autore, di un’arte, di una corrente letteraria o artistica, di un’epoca». Ecco, il vocabolario dice che non è un concetto che va sempre di pari passo con un comprovato contesto storico; nel momento in cui ci troviamo davanti all’opera migliore di un autore, quindi, possiamo tranquillamente parlare in certi termini e senza fare torto a nessuno.

Gli Yob hanno tirato fuori un coniglio di proporzioni abnormi dal cilindro: Clearing The Path To Ascend è un disco che qualsiasi appassionato del genere dovrebbe comprare senza neanche leggere queste parole. Tutti gli altri dovrebbero almeno sentirlo, in particolare l’ultimo brano, “Marrow”, ma andiamo con ordine. Questo è un disco che si può considerare come una moneta: un essere bifronte con due facce ben distinte, ma facenti parte dello stesso corpo in maniera inscindibile.

 

TESTA

In Our Blood” si palesa soffusa, con chitarra acustica e un piglio sinistro che sarà mantenuto per tutti i suoi diciassette minuti di durata (l’album è composto, lo ricordo, da quattro tracce, tutte su questo minutaggio). Nel momento in cui il suono si distorce, si ha come l’effetto di fare un frontale contro un muro a velocità sostenuta: la sezione ritmica è lenta, ipnotica e circolare, la chitarra è grassa e ogni accordo è come una badilata in testa. Presto arriva la voce effettata a intonare una nenia nera e arcigna; bellissime le dissonanze e il mood generale che risulta di una pesantezza unica. Lo stacco definisce l’entrata del growl e lo spostamento del brano verso lidi ancora più estremi; dura poco, giusto un attimo e si riprende col tema precedente. Si rimane ipnotizzati come serpenti davanti a un buon flautista. Il secondo stacco riporta in maniera lineare al growl e mantenendo la forma canzone; il tema poi cambia, ma non l’incedere generale. Sono già passati nove minuti e nessuno se n’è accorto; giusto il tempo di tornare razionali e lo stacco questa volta è netto, quasi come un finale. È la stessa chitarra posta all’inizio che, invece, fa capolino e ci ricorda che non è ancora tempo di dire basta. Gli accordi prima sono secchi, poi aperti, poi lasciati andare; la serie di finte funziona benissimo e cattura l’ascoltatore mantenendo la tensione a livelli quasi insopportabili. Si attende per minuti interi un’esplosione, una furia distruttiva che arriva improvvisa e dilaniante e trasporta l’ascoltatore annichilito verso gli ultimi attimi di una traccia davvero impressionante.
Nothing To Win” movimenta l’ambiente alzando il tiro con un pattern sui tom e la pennata che qui accelera con un buon tremolo picking. Ci assestiamo su territori tanto cari a qualsiasi amante dei Neurosis che si rispetti, con tanto di ritornello che entra subito in testa per non uscirne più (non si fanno mancare niente gli Yob in quest’opera e si sente!). Il tema portante è presto ripreso e risulta vincente sotto tutti i punti di vista, anche col semi-parlato proposto; la ripetizione del ritornello è qui ovvia, e necessaria, e puntualmente arriva come una liberazione. La seconda parte del brano si sposta su lidi più pesanti in un concentrato di follia e intensità di rara bellezza; la coppia rullante-chitarra fa sfracelli e elimina tranquillamente le ragnatele dagli angoli più remoti della vostra cameretta. Un urlo demoniaco spegne la chitarra e l’umore cambia ancora, il camaleonte ha un altro colore da offrire per riproporre il ritornello, variato con solo un richiamo di voce e sezione ritmica poi ripreso totalmente ma strumentale.
Unmask The Spectre” abbassa i distorsori, riproponendo un incipit di sola chitarra che si assesta su toni abbastanza soft; l’ascoltatore è comunque messo in guardia, complice una voce sussurrata che promette feroce distruzione. Le nostre orecchie e i nostri sensi sono subito accontentati con puro romanticismo: il saliscendi che va dal distorto e devastante al pulito e sognante è da veri fuoriclasse, facile da concepire, difficilissimo da rendere naturale. Il bridge calma un pochino le acque con armonie arpeggiate in maniera distorta che spezzano la tensione e vengono poi sovrastate dalla voce; la melodia successiva, offerta dalla chitarra, porta un po’ di pace dei sensi, assopisce, sembra quasi il titolo di coda di un film di serie C a lietissimo fine. Viene qui ripetuto lo scherzetto di “In Our Blood”: tutto si spegne, la chitarra viene lasciata da sola e inizia ancora una volta a salire quell’insopportabile stato di tensione che è qui telefonato ma ancora irresistibile. L’eruzione ovviamente avviene e la pesantezza aumenta sempre di più; la voce arriva a sembrare un lamento proveniente direttamente dall’oltretomba, mentre tutto il resto rallenta accompagnato da un arpeggio malefico che non vi si scrollerà più da dosso fino alla fine delle ostilità.

 

CROCE

Ora potete tranquillamente dimenticare il resto del disco; non è uno scherzo, dimenticatelo totalmente. “Marrow” è un’entità a se stante, è qualcosa che contribuisce al sogno e arriva dritto al cuore. È impossibile non ascoltarla senza che arrivino i sacrosanti goccioloni agli occhi, com’è impossibile non rimanerne folgorati più o meno al primo ascolto. È la traccia più lunga del disco, quasi venti minuti; inizia in maniera armonica, delicata, con una serie di accordi che proietteranno i vostri ricordi sul muro e smuoveranno il midollo, appunto, di corde nascoste con picchi d’intensità raramente riscontrabili a questo livello nelle produzioni recenti. La voce arriva in sordina, nei primi minuti è timida, fugace e tesse una trama che funge d’antipasto ma allo stesso tempo consola, rassicura ed è ripetuta fino al parossismo. Il tappeto ritmico è lento, si grosso e grasso ma mai invadente; qui si lascia spazio alle sensazioni e si mette l’impatto in un cassetto. Il tema vocale inizia a mutare, le note si allungano e il presagio di un cambio di umore è servito e portato in tavola con stacchi prima aperti poi uno chiuso. La formula ormai la conosciamo: arriva l’immancabile chitarra acustica che, questa volta, accarezza, scolpisce attimi e crea vortici persi nella memoria più profonda. L’arpeggio varia, la melodia si fa più toccante; dimenticate le dissonanze, la voce sussurra per un po’ poi sparisce, non è necessaria. “Marrow” emotivamente ti annienta, ti rende quel famoso punto che sei nel mondo, ti addita e te lo ricorda; e tu nel tuo niente ascolti e ti viene solo da dire grazie. “Marrow” è come leggere un libro di Umberto Eco: sai già che sarai ridotto in poltiglia ma non ne puoi fare a meno, un po’ per masochismo un po’ perché vorresti essere capace alla stessa maniera. Alla fine la riascolti e la riascolti ancora; del resto la proprietà dei grandi è proprio questa, il saper farsi ascoltare e soprattutto apprezzare per lungo tempo.

 

Due parole, infine, sulla produzione, che è arcigna e grezza come dovrebbe essere per un disco di questo tipo. I suoni sono violenti al punto giusto e ottengono benissimo lo scopo di annichilire l’ascoltatore a suon di bordate distorte e un andare che non risulta mai impastato ma cristallino nel suo essere malsano. La prestazione del trio è sopra le righe e il livello d’ispirazione è notevole. Potremmo anche finire qui, votare e andare a casa, ma il rigor di cronaca ci impone di continuare.
Non rimane altro da dire sugli Yob, e su Clearing The Path To Ascend, non ne è nemmeno il caso: fatelo vostro senza troppi problemi, o comunque ascoltatelo. Di questi tempi i livelli d’intensità, violenza e impatto emotivo/emozionale che sono qui offerti sono merce rara; se poi siete di quelli che si ritengono difensori del fatto che la parola ‘capolavoro’ non possa venire usata perché tutto è già stato scritto, beh, non ci resta che parlare in altri termini. Coniamo un termine e diciamo che questo disco è un “gregariolavoro”: un’opera concepita dalla nicchia, dal sotto bosco, dalla manovalanza, che il cosiddetto circuito mainstream fatto da mummie uscite da chissà quale rudere attualmente può solo osservare col binocolo. Disco formidabile.

 

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