Recensione: Cycles

Di Paolo Rossi - 5 Settembre 2003 - 0:00
Cycles
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Anno: 1995
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86

Come spesso accade nel piccolo universo metal e dintorni, la cosiddetta audience si può permettere il lusso di non notare alcuni album eccellenti che invece, grazie a propri elementi innovativi, influenzano direttamente e indirettamente schiere di altri gruppi e musicisti, in modo più o meno evidente.
Questi album diventano quindi storia, e ad essi bisognerebbe tributare i dovuti onori, specialmente quando gli stessi sono opera di gruppi esordienti o comunque non “famosi”.
E’ questo il caso di “Cycles”, album d’esordio dei newyorkesi Wicked Maraya che un anno dopo ridussero il proprio monicker a Maraya e, purtroppo, anche lo stile musicale orientandosi verso un “heavy-grunge-alternative-post-electro-thrash” modaiolo che infatti li condusse nel baratro da cui non sarebbero più usciti. Fino allo scioglimento della band.

Ora, quest’album non ha le caratteristiche più evidenti del cliché prog (tastierine, tempi dispari, linee melodiche disarmoniche, composizioni “collagistiche”, ecc.) ma presenta l’essenza dello spirito progressive-metal nelle sue svariate situazioni, nelle atmosfere, nei cambi di tempo, nell’utilizzo delle chitarre, insomma, nella sua visione globale.
Immaginate una miscela di Queensrÿche “Rage For Order”, Crimson Glory “Transcendence”, Sanctuary e i primi Nevermore e Savatage. Il tutto in una visione metodica e schematica, accentuata soprattutto nelle parti ritmiche; alcuni riff richiamano addirittura i Megadeth di “Countdown To Exctinction”.
Una delle caratteristiche salienti di quest’album é l’uso delle chitarre: riff assassini, fraseggi taglienti come rasoi, parti ritmiche pesanti, parti “pulite” di grande eleganza e una varietà di situazioni da fiera campionaria. E sempre armonizzate con spiccato gusto e perizia, e sempre con un “sincro” impressionante.
Non ci sono soli di chitarra di tecnica superiore, né ritmiche circensi o impossibili, c’é tanta classe e altrettanta ricerca del bello, noncurante della difficoltà esecutiva che ossessiona la maggior parte dei musicisti prog – che infatti spesso perdono il senso dell’emozione.
L’altra caratteristica é la voce: bella presente, sempre in faccia, vocione abbastanza roco scuola Coverdale con una buona estensione, grande espressività ed interpretazione da pelle d’oca; spesso effettata -parecchio- ma con classe e sagacia, si muove alla grande sia nelle parti primarie che nei cori e nei controcanti che trascendono le armonizzazioni comuni.

I brani sono prevalentemente mid-tempo anche e con velocità metronomiche abbastanza diverse; a volte compaiono fughe veloci, a volte si distendono su ampie parti lente di grande pathos e atmosfera.
Numerosissime le aperture armoniche spesso effettuate anche senza drastici cambiamenti tonali, il più delle volte evidenziate dai quei maledetti ipnotici fraseggi di chitarra sopra citati e dal raddoppio/dimezzamento/ecc. del tempo di batteria.
La sequenza dei brani é ben concepita, ben dosata la proporzione parti cantate/parti strumentali e c’é una giusta alternanza tra i brani e le parti che li compongono; il risultato é un disco che scorre via con rara fluidità e tiene l’ascoltatore agganciato senza soluzione di continuità.
La sezione ritmica é “vinilica”, nel senso che sembra che basso e batteria siano incollati tanta é la sintonia, sia in parti “quadrate” sia in parti in cui il portamento é molto più libero. E’ infatti anche l’interpretazione del tempo e dei portamenti che dona a questo lavoro la lucentezza di un gioiello come pochi. Belli e diversificati i pattern ritmici (la coppia Rockenfield-Jackson insegna).
C’é anche un marginale uso delle tastiere limitato a sottofondo o a parti di ambientazione o ad arrangiamento/arricchimento in particolari passaggi.

L’opener “Another Day” si presenta con un riffonzolo di Megadethiana memoria e da subito il vocalist Lou Falco mostra i propri attributi saltando da un timbro all’altro e muovendosi con padronanza su linee melodiche orecchiabili e ruffiane. Ma é nella seconda traccia, “Jacob’s Dance” che i brividi percorrono la spina dorsale: parti vocali coinvolgenti, effettistica a profusione, espressività a mille; le chitarre intessono ritmiche e fraseggi a non finire – e tutti belli, la sezione ritmica é una manata di pesantezza in faccia dall’inizio molto cadenzato ai rallentamenti alla progressione verso tempi più “groovy” e “portati” intervallati da finte accelerazioni.
Segue “Resurrection”: inizio di chitarre arpeggiate e i soliti fraseggi assassini, la voce conduce al mid-tempo dove si apre un ritornello travolgente per poi ritornare in quella nebbiolina di riverberi molto larghi tipica dei producers americani. E tra sali-scendi ritmico-armonici si passa alla successiva “Face In The Mirror” brano grintoso dal riffing floridiano che ancora una volta si snoda su alternanze di situazioni opposte (ma sempre consequenziali), e ancora una volta ritornello ampio, melodico, dall’intelligente progressione armonica.
“Johnny” é forse il brano che finora impressiona meno nonostante un’ostentata volontà del gruppo di ricercare soluzioni diverse, forse un po’ troppo rispetto a quanto proposto nelle tracce precedenti.
“Watching Over” riprende la vena grintosa, mid-tempo pesante, quasi un richiamo ad “Eyes Of A Stranger” di Tate & Co., ma molto fluido, melodico, più continuo dei brani precedenti e con un abbinamento di suoni di chitarra distorto-pulito della migliore scuola USA.
Con “Alone” si passa a velocità e ritmiche ben più sostenute e pesanti, rallentamenti quasi claustrofobici, il solito guitar-work di spessore, le parti vocali sono meno melodiche e più dure, Nevermoriane a tratti.
E’ il turno di “Winters Garden”, brano cupo, pesante, le chitarre uccidono, la sezione ritmica si contrae e distende a seconda delle parti, e dopo quasi quattro minuti si passa a “Forever”, brano volutamente poco melodico, a tratti avvolgente a tratti graffiante, fino a quando a circa due minuti dall’inizio la band sfoggia una di quelle sue aperture armoniche da “spettinamento” che intervalla ritornelli rocciosi; il brano si chiude con un duraturo calando dal portamento ansimante, trascinato, spostato un po’ indietro rispetto al metronomo.
Volgiamo verso la fine, “Sign Of Heaven”, altro mid-tempo pesante dall’incedere maestoso che si chiude con una doppia cassa che ci traghetta all’ultimo brano. E’ “The Legacy” e probabilmente l’apice del disco. Sei minuti trentatre secondi in cui si condensano quasi tutti gli elementi che hanno caratterizzato l’album, un brano di spessore, elegante, pesante, melodico nelle linee vocali e nei fraseggi di chitarra, ricercato e vario nella ritmica, essenziale ma distinto negli arrangiamenti.

La produzione é buona anche se non ottima, curata da “tale” Jim Morris (dei Morrisound Recording di Tampa, Florida) ed é, a mio giudizio, molto strana, quasi interlocutoria. Si tratta di un disco molto suonato, poco editato, molto “live” per così dire. Per cui la produzione bella cruda ci sta proprio, ma é letteralmente avvolta da una cifra di lavorio sugli effetti e sulle equalizzazioni. Basta vedere nelle parti in cui suonano 6 chitarre, basso e tastiere la scelta delle frequenze e degli effetti: sembra un mix del Maestro Quincy Jones tant’é raffinato. A questo si accostano però strani “ritorni” di riverberi, aperture di compressori e altro che sono sicuramente voluti ma che sembrano quasi-proprio erronei… mah…
La batteria suona bene soprattutto sui tom e sul rullante che da tradizione americana é ben definito e non poco compresso. L’hi-hat non é sempre definito, anzi…, e i piatti sono abbastanza normali. Il basso é posizionato appropriatamente nello spettro sonoro, le chitarre suonano da paura, la voce é registrata bene ma mixata non perfettamente.

La grafica é buona, eccellente l’immagine e il colore della copertina che ben rappresenta il titolo dell’album nonché lo stile musicale e i toni di questo lavoro; il booklet é decoroso.

L’album é di difficile reperibilità, forse si trova ancora tramite qualche mail order inglese o tedesco; l’etichetta che lo pubblicò, la tedesca Mausoleum, non si capisce bene se esista ancora e a quali livelli (vi prego di farmelo sapere se possibile).

In conclusione: disco eccellente in sé benché non perfetto (così come tanti altri ben più famosi che non citiamo in questa sede) ma forse proprio per questo rimane un disco unico, tanto unico che la stessa band non é riuscita a partorirne il degno successore.
Chissà quali e quanti fattori non hanno consentito a questo lavoro di assurgere a maggiori fasti, ma il fatto di potere rivivere nei lavori di altri musicisti é forse il premio migliore per una simile opera d’arte.

Track list:
01. Another day
02. Jacob’s dance
03. Resurrection
04. Face in the mirror
05. Johnny
06. Watching over
07. Alone
08. Winter’s garden
09. Forever
10. Sign of heaven
11. The legacy

Total playing time: 46:20

LIne-up:
Lou Falco: vocals
Dan Malsch: guitars
Michael Iadevaio: guitars
John Iadevaio: bass
Mike Nack: drums

Discografia:
1995 – (come Wicked Maraya) Cycles
1996 – (come Maraya) No Hope For Humanity
1997 – (come Maraya) Counterculture

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