Recensione: Dead Mother Moon
Buon anno! Che programmi avete per questo 1995?
Gli Upon Stone hanno le idee ben chiare e, forti di un prestigioso contratto con Century Media, danno alle stampe Dead Mother Moon, primo album ufficiale dopo l’ep di debutto Where Wild Sorrows Grow. La band californiana suona svedese come se non ci fosse un domani e ci riporta agli anni d’oro del melodeath, giorni in cui uscivano dischi come Slaughter Of The Soul, The Jester Race e una sfilza immane di capolavori oggi difficilmente ripetibile. Tutto degli Upon Stone rimanda a quel periodo, e quando diciamo tutto intendiamo proprio tutto. Il modo di suonare dei nostri ricalca tantissimo quello degli At The Gates con una spruzzata di In Flames e un qualche richiamo anche ai più recenti Duskfall; tempi in 2/4 a go go quindi, melodie malinconiche con ottimi intrecci di chitarra e il cantato di Xavier completamente in scream che sembra, guarda un po’, un Tompa in grande spolvero. La produzione si fa in quattro per ricalcare i bei tempi dello studio Fredman e ci riesce piuttosto bene. Persino l’artwork del disco è stato ideato da un colosso degli anni ’90, un certo Andreas Marschall, autore di alcune tra le cover più belle e iconiche in assoluto di quel periodo fantastico. L’unico elemento moderno dell’album è l’ospitata di Biran Fair degli Shadows Fall, presente in Paradise Failed.
Dead Mother Moon è un album che si lascia ascoltare piuttosto bene e che è suonato e confezionato al massimo delle possibilità; il suo più grande difetto è però la sua stessa natura. Ha senso oggi, trent’anni dopo? Oltretutto la durata del lavoro è piuttosto striminzita: trentun minuti per sette brani, un intermezzo inutile e una cover dei Misfits (Dig Up Her Bones). Si sarebbe potuto e dovuto fare di più a nostro avviso, ma tant’è. Ciò che rimane è una piacevole mezz’ora, che farà qualche passaggio nei vostri padiglioni auricolari per poi lasciare spazio ancora una volta a Whoracle.