Recensione: Death Never Sleeps

Direttamente dalla scena di New York City arrivano sulla tavola del death metal i Glorious Depravity con il loro nuovo piatto, “Death Never Sleeps“, secondo album in carriera dopo “Ageless Violence” del 2020. Apparentemente non molto prolifici, quindi, se non che i cinque membri dell’equipaggio fanno parte di altri, molteplici progetti del sottobosco newyorkese.
Tanta esperienza sotto le suole, tanta tecnica e sicurezza nei propri mezzi raffinatasi a forza di esibirsi in piccoli locali per giorni, mesi, anni. Circostanze che si percepiscono appieno, scatenando la furia degli elementi con l’opener-track “Slaughter the Gerontocrats“. Grande lavoro delle chitarre in fase ritmica, up-tempo che si scatenano in blast-beats, e blast-beats che si rivoltano su se stessi per un incedere assolutamente piacevole.
Lontani da manie di protagonismo in esito a progressioni e/o evoluzioni stilistiche, il quintetto americano sciorina la propria musica con una scioltezza del tutto naturale. Tant’è che il disco sputa fuori una grande quantità di sudore misto a sangue. Sì, perché il death metal sparato alla velocità della luce, allacciato a una pesantezza gravitazionalmente insostenibile, non è roba da tutti. Death metal, peraltro, che deve parecchio alla vecchia scuola ma anche al thrash. Il tutto, eseguito in maniera moderna, al passo coi tempi, cosicché “Death Never Sleeps” si può considerare un lavoro che tenga conto sia del passato, sia del presente sia, perché no, del futuro (“Freshkills Poltergeist“).
Non è solo la grande potenza erogata a squarciare le orecchie. Anche i mid-tempo, forieri di devastazioni timpaniche, sono di una pesantezza insostenibile, che schiaccia come un torchio il torace. John McKinney manovra difatti il proprio basso a volte così in primo piano da stordire, mentre la batteria deve sopportare le tremende mazzate di Chris Grigg, autore di pattern variabili ma sempre con una fluidità che poche volte si ha a che ascoltare.
Quando, però, l’inumano growling di Doug Moore (che ogni tanto si scortica la gola con delle harsh vocals letteralmente urlate) dà il la, si scatena in tutta la sua furia cieca l’annichilente sound che proietta la mente verso stati di pura allucinazione ove si possono osservare le molecole dell’aria che, ruotando e sbattendo fra loro vorticosamente, innalzano la temperatura dell’aria stessa sino a bruciare la pelle (“Scourged by the Wings of the Fell Destroyer“).
La mostruosità del sound del combo statunitense si può evincere ovunque, purtuttavia ci sono singoli episodi che, più di altri, come per esempio “The Devouring Dust“, delineano un costrutto senza compromessi, senza alcuna concessione alla pietà sonora. Oltre all’immane, terrificante muraglione di suono sviluppato da un’artiglieria che più pesante non si può, ci si mettono pure gli assoli delle sei corde a demolire quel poco che è rimasto in piedi dopo il passaggio del tornado.
È normale che all’interno di questo sound, così spinto oltre il limite dell’umana resistenza, sia complicato discernere le varie canzoni. Tuttavia, così complicato non è, poiché – e qui entra in gioco la classe della compagine a stelle e strisce – dopo un po’ s’inizia a prendere confidenza con le nove cannonate che compongono il platter. Perché è anche vero che, in mezzo a questo apparente marasma sonoro, la bontà della produzione restituisce una leggibilità altrimenti impossibile da mettersi in atto. Un fatto non casuale, quest’ultimo, ma dovuto alla benedizione della Transcending Obscurity Records, label indiana specialista nelle mostruosità foniche.
“Death Never Sleeps” è un full-length da ascoltare ad alti volumi, in maniera che si possa scatenare in tutta la sua rabbia ferina. Presumibilmente i vicini di casa non saranno molto contenti, di ciò ma, in fondo, la musica non ha mai ucciso nessuno. I Glorious Depravity, invece, metaforicamente, sì.
Solo per i più coraggiosi esploratori del metal iper-estremo.
Daniele “dani66” D’Adamo
