Recensione: Dreamcleaver

Di Daniele D'Adamo - 16 Dicembre 2015 - 15:31
Dreamcleaver
Band: Vhod
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2015
Nazione:
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Vhod è una one-man band creatura di Chris Shaver, canadese che in poco più un anno di attività ha prodotto molto materiale prima di giungere alla pubblicazione di “Dreamcleaver”. Quattro single (“One Fallen”, 2014; “The Scornful Winter”, 2014; “Cimmeria”, 2014; “Tor III: Portal”, 2015), quattro EP (“Dreams Of 11.14”, 2014; “Tor I: Behind The Shroud Of Mist”, 2015; “Tor II: Wrap Three Times”, 2015; “Tor IV: The Desolates”, 2015) e una compilation (“Sampler”, 2015), rappresentano una preparazione propedeutica debordante, per questo debut-album.        

È evidente che il buon Chris debba avere in testa una fucina d’idee dall’altissimo tasso di produttività, tale da avere interessato, per la messa alle stampe del disco, una label importante come la scandinava Inverse Records. Obiettivamente l’impegno, la dedizione alla causa, una ferrea determinazione e, ultimo ma non ultimo, un’incrollabile stachanovismo, fanno parte del bagaglio di pregi che il Nostro porta in giro con sé.   

Pregi che, senz’altro, abbisognano di altro tempo, per venir fuori con la dovuta rilevanza per far fronte ai marosi di un mercato discografico saturo sino all’esasperazione. “Dreamcleaver”, difatti, mostra ancora a livello embrionale le qualità di Shaver, feroce masticatore di un death a dire il vero piuttosto originale, sperimentale, ma sfortunatamente ancora lontano dalla piena maturità. Il progetto Vhod nasce indubbiamente da una capacità tecnica più che sufficiente a uscire nel mondo reale senza fare figuracce. Basso, chitarre e voce sono assolutamente in linea con gli standard minimi per lasciare l’ambito delle autoproduzioni, tuttavia ci sono parecchie parti, nel sound dei Vhod, che richiedono di essere migliorate. Drumming in primis, probabilmente punto debole più grave di “Dreamcleaver”. Certamente una one-man band non può che avvalersi di una drum-machine, ma quella messa su da Shaver, oltre a avere un odore troppo artificiale, non sembra essere stata programmata al meglio delle possibilità tecnologiche attuali. È un difetto rilevante, questo, perché inficia parecchio la resa complessiva di un suono assai tagliente, questo sì, ma povero di energia. 

Difetto ancor più rilevante, però, è l’impalpabilità delle song, dalla struttura più che elementare, embrionale. Come se fossero solo dei test iniziali invece che un prodotto finito. La mancanza di continuità nella definizione precisa di un modus compositivo, oltre a mancare l’obiettivo di azzeccare il disegno del Vhod-sound, porta alla frammentazione dell’intero corpo-canzone. Ci sono brani ben costruiti nonché ottimamente riusciti, si vedano per esempio il main-riff arrotacolli dell’opener “Still The Blood” e l’heavy duro e massiccio di “So Pass Away/Locus Mortis”, e brani clamorosamente vuoti, come “On The Tree Of Woe” e “Flesh For Our Swords”.

Per il coraggio e la volontà di Chris Shaver, allora, si può sperare che tutto quanto sopra sia dovuto solo alla troppa giovinezza dei Vhod e, magari, di un po’ troppa precipitazione a forgiare i pezzi di “Dreamcleaver”, full-length d’esordio che necessita di parecchi miglioramenti per oltrepassare lo sbarramento dell’insufficienza.

Daniele D’Adamo

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