Recensione: Escape From Pain [Reissue]

Di Pasquale Ninni e Leonardo Ascatigno - 29 Novembre 2020 - 12:21
Escape From Pain [Reissue]
Band: Intruder
Etichetta: Lusitanian Music
Genere: Thrash 
Anno: 2020
Nazione:
Scopri tutti i dettagli dell'album
65

Tra i grandi dilemmi che accompagnano l’uomo sin dalla sua prima comparsa sulla terra c’è quello relativo all’importanza delle dimensioni; questione da sempre dibattuta, talvolta anche con un pizzico di malizia, ogni qualvolta qualcuno ha cercato di fissare alcuni paletti chiarificatori, subito questi sono stati spazzati via da eterne smentite. Come esempio, che si eleva a paradigma, basti pensare al famoso portiere di calcio messicano Jorge Campos che inizia la sua lunga carriera nel 1988 per terminarla nel 2004 dopo aver partecipato, tra le altre competizioni, anche a tre edizioni dei mondiali di calcio. Lui ha un’altezza, quindi una dimensione, atipica per un portiere in quanto è alto soltanto 1,68 m., ma nonostante questo riesce a divenire subito celeberrimo grazie a una sua intuizione, a un suo vezzo: l’utilizzo di divise sgargianti, fluorescenti e bizzarre, direttamente disegnate da lui, che lo pongono al centro dell’interesse mondiale riuscendo ad eclissare il suo vero valore come portiere. I freddi teorici sostengono che sia stato un abile stratagemma per distrarre gli avversari, per creare loro dei fastidi accecandoli in modo da disturbare l’azione di tiro in porta; i romantici invece sostengono che sia stato un modo per dare libero sfogo al proprio ego e, a quanto pare, sarà proprio così.

Ecco un fulgido esempio di come bisogna essere capaci di superare i luoghi comuni o la vulgata da bar, di come una piccola dimensione in realtà possa raccontare una grande storia, affascinante, classica, portatrice di significati reconditi e personali e resistente agli attacchi del tempo che, come molto spesso accade, tende a far dimenticare.

Esattamente come per Campos, ma si potrebbero fare altri esempi illustri di variegata derivazione (si pensi al bellissimo libro Niente Più Niente Al Mondo di Massimo Carlotto racchiuso in sole 69 pagine) anche gli Intruder, a modo loro, hanno scritto una pagina con le medesime logiche fin qui raccontate; logiche che portano a trascendere un piano meramente artistico, per approdare a un livello “meta”, che va oltre, in grado di scrollarsi di dosso dei meriti musicali per abbracciarne altri che, in termini di dignità, non hanno nulla da invidiare a quelli artistici.

Tutto questo gli Intruder lo colorano nel 1990 con la pubblicazione del loro EP intitolato Escape From Pain, un disco dalle dimensioni appunto molto contenute (29 minuti di durata) ma con un intento rispettabilissimo. Il suo compito non è quello di rimanere negli annali, ma di vivere, senza suscitare aspettative esagerate, lasciando un piccolo e umanissimo segno.

La band statunitense si caratterizza per i suoi interessi culturali e per la sua capacità di guardare oltre la siepe dell’infinito e l’idea di questo EP lo dimostra ampiamente; di certo questa idea non è destinata a caratterizzare specificatamente un secolo, come l’uso della ragione caratterizzò quello dei Lumi, così come il disco non può puntare a fissarsi nell’immortalità, ma le intenzioni della pubblicazione sono nobili, squisitamente interessanti, romantiche e genuine perché mettono al centro del loro interesse, in una sorta di sistema copernicano, il rispetto e l’affetto verso i loro fan. Infatti l’EP viene pubblicato con un solo brano inedito per colmare presso i loro sostenitori la delusione dell’interruzione del loro tour. Su cinque brani si ascolta una cover, l’inedito Escape From Pain e poi altri tre brani tratti dal loro primo album. Questa attenzione verso i propri fan ha qualcosa di veramente raro e riesce a conferire un valore aggiuntivo a tutto il lavoro.

Un lavoro che continua a essere marchiato dalla dimensione, infatti quella del tempo è molto ristretta, considerando che il tutto viene registrato dal 24 al 26 febbraio 1990 presso i The Garage Studio (Tennessee). L’EP viene confezionato con una copertina bellissima e visionaria a cura di Rich Larson e Steve Fastner già operativi, tra gli altri, con gli Overkill.

Si è fatta menzione della volontà degli Intruder di ridare alle stampe tre brani del loro primo disco, l’ottimo Live To Die, e questo nasce anche dalla necessità di rimettere in circolo i brani più significativi del debut album in quanto questo risultò subito introvabile. Anche questa operazione depone a favore di un rispetto verso i propri fan davvero inusitato e che ci ricorda che non solo nella scienza, ma anche nella musica, nulla si distrugge, tanto si trasforma.

Anche Escape From Pain ha goduto da subito di un discreto, contestualizzato nel tempo (pleonastico rimarcare cosa rappresentava la scena Thrash di quel periodo), successo nel panorama musicale, infatti nel 2006 la Lost And Found Records l’ha ristampato in sole 500 copie ed è curioso come ritorni in maniera ciclica e costante un qualche riferimento alla “dimensione”, infatti 500 copie appaiono davvero un numero esiguo. Questa operazione di resurrezione pagana è stata poi continuata dalla Lusitanian Music che ha pubblicato le ristampe, nel 2020, del disco in questione più di altri due. Questa iniziativa è encomiabile in quanto permette di poter continuare a disporre di questo EP che forse non dirà molto dal punto di vista musicale, ma che invece dice tanto dal punto di vista umano e sociale.

Ascoltando l’inedito Escape From Pain emerge un brano in pieno stile americano, con dei riff potenti costruiti attorno alla splendida voce di Jimmy Hamilton, con una struttura articolata concepita dal combo formato da anche Arthur Vinett (chitarra), Greg Messick (chitarra, musicista scomparso nel 2020), Todd Nelson (basso) e John Pieroni (batteria).

Come già anticipato l’EP è composto, oltre che dall’unico inedito e dagli altri brani già editi Cold-Blooded Killer, Kiss Of Death e T.M. (You Paid The Price), anche dalla cover 25 Or 6 To 4 dei Chicago; questa, onestamente, oltre a non conferire nessun tipo di valore all’album, è stata anche collocata in apertura del disco, in una posizione alquanto infelice.

Nell’analisi dell’ascolto si parte proprio da 25 Or 6 To 4, classico dei Chicago datato 1970 che ha visto una miriade di reinterpretazioni a opera degli artisti più disparati. Tra le riletture più infelici, come già anticipato, vi è senza dubbio quella degli Intruder. A tratti mancano i presupposti artistici per poter inserire questo specifico brano all’interno dello stesso EP (e come opener, come già sottolineato). Non ci sono tratti né strumentali né vocali che possano minimamente impreziosire questa versione o darle una luce diversa. Si ha la sensazione di aver scelto questo specifico brano tirando a sorte tra tanti. Aprire le danze così vuol dire perdere in partenza. Apprezzare il tentativo non serve, qui stiamo parlando di musicisti che sedevano alla cattedra del Thrash e che per qualche oscuro motivo hanno giocato la carta del “brano evergreen”. Il passo falso dunque commesso nel precedente A Higher Form Of Killing del 1989, che vedeva nella tracklist un’insolita e quanto mai poco riuscita (I’m Not Your) Stepping Stone dei The Monkees, qui è stato ripetuto. Il chorus è reso davvero pedante e sottotono, il timbro vocale di Jimmy Hamilton non aiuta in questo contesto e i suoi controcanti sono di dubbia fattura, oltre che eseguiti in modo tutt’altro che preciso. Le risposte delle chitarre (che vogliono un po’ fare il verso alla sessione dei fiati della versione originale) alla voce sono imbarazzanti e non tengono conto di quanto il timbro di uno specifico strumento sia di vitale importanza per l’esposizione di un qualsiasi tema (anche il più banale). Un’esperienza da dimenticare fatta eccezione per il solo finale, pur rispettando quanto detto finora: completamente alieno anch’esso (nel senso di estraneo all’opera).

Peccato dunque aver cominciato l’EP in questo modo, oggi è facile allontanarsi (purtroppo) per sempre dall’ascolto di un album che potrebbe rivelarsi sulla carta un buon prodotto, ma che comincia nel modo più insulso. Lo sanno bene le nuove leve ma per fortuna qui stiamo parlando di una ristampa, il lavoro vero e proprio è stato rilasciato negli anni in cui si ascoltava il nastro fino al Bip finale e solo dopo si traevano le conclusioni.

Finalmente il quadro muta: l’attacco della title track ci fa capire di che pasta sono fatti gli Intruder. Una marcia pesantissima, al secondo 0:38 il riff presente durante gli stacchi sembra letteralmente preso da Battery dei Four Horsemen (da Master Of Puppets). Il richiamo è incredibile, tonalità vicine e suoni tremendamente simili. La produzione tutta, in effetti, richiama molto il masterpiece di Hetfield e soci. Le chitarre sono presenti ma non sono definitissime, anzi appaiono grezze in pieno stile di quegli anni insomma. Il drumming di John Pieroni è sempre molto istintivo ed eclettico, in questa suite di quasi 9 minuti c’è davvero molto (troppo) materiale. Escape From Pain parte imperiosa come già detto, ma vi sono alcuni elementi un po’ diversi nel sound degli Intruder che andrebbero analizzati con più attenzione. Al minuto 3:20 si assiste a un tentativo simil-doom inaspettato, ma decisamente indovinato. I riff sono di stampo sabbathiano e Hamilton qui è di certo più a suo agio rispetto alla cover d’apertura. Il brano prende altre strade successivamente, per certi versi non proprio concrete, ma finalmente arriva la reprise che conduce a un bel finale. Nulla di trascendentale, sia chiaro, ma almeno si è tornati agli standard medi degli Intruder, musicalmente parlando.

Cold-Blooded Killer stacca con un riff di basso del solito Todd Nelson, molto fluido e orecchiabile e come è consuetudine (contestualizziamo il disco nel 1990) le chitarre riprendono il suddetto riff cercando di appesantirlo. Peccato che anche qui gli echi (e i riverberi) ci riportano nuovamente al nostro ben più famoso “Mastro Burattinaio” uscito 4 anni prima, e più precisamente ci avviciniamo per groove e costruzione delle parti (oltre che per i suoni come già detto precedentemente) a Leper Messiah. Il compito di evitare questo scomodo accostamento spetta all’ugola di Jimmy Hamilton, davvero opposta a quella di Hetfield, che “salva” la baracca con una prestazione davvero degna di nota. Questo è uno di quei momenti in cui ci si accorge che il sopracitato frontman, artista di spessore e dotato di un grande talento, è purtroppo rimasto indietro in termini di fama e riconoscimento mediatico. Il brano procede con questo mid tempo in maniera ostinata ed è ispirato a The Hunger, film horror erotico del 1983 diretto da Tony Scott con David Bowie. Lascia il posto alla conclusiva Kiss Of Death. Brano basato sui primi due capitoli de “Il Padrino” dove troviamo un’introduzione di chitarra acustica in arpeggio (in un primo momento) e uno sviso improvvisato di mandolino ad opera della cantautrice americana Mary Ann Kennedy (dalle note di copertina) con tanto di tremolo picking. L’intro che non ci si aspetta insomma, ma i più attenti (che resteranno ovviamente delusi al solo nominare l’artista che citeremo) scruteranno echi di Black Horsemen del dio del Metal, sua maestà King Diamond (brano di chiusura di quel mastodontico capolavoro targato Abigail uscito tre anni prima), sia per la divisione e la struttura delle parti che per la scelta dei suoni e della funzionalità dell’intro stessa: un preludio per qualcosa di completamente diverso che si svolgerà successivamente. Sfuriata in pieno stile Intruder, davvero violenti in questo passaggio e finalmente emergono le doti di Arthur Vinnett alla sei corde che, assieme al fido Greg Messick, ha sempre dato prova di essere un fuoriclasse. Brano tra i punti più alti dell’EP oggetto della recensione, il livello non si abbassa di certo ascoltando T.M. (You Paid The Price), 4:40 minuti di Thrash di altissimo livello e senza fronzoli. I cori sono compatti, marchio di fabbrica per certi versi seppur non esclusivi, e ancora una volta Hamilton fa la sua bella figura dietro il microfono. Notevole il groove durante il solo, lo impreziosisce e lo supporta allo stesso tempo. Da notare, sempre dalle note di copertina, la dicitura (assieme alla song Escape From Pain) “are true stories”.

In questo viaggio la produzione di Tom Harding di certo non ci ha aiutato, ma stando agli standard dell’epoca ci si attesta su livelli piuttosto alti, di certo ben più lontani dal disastroso lavoro fatto col precedente A Higher Form Of Killing. Qui gli strumenti hanno una resa più reale e c’è un amalgama nel sound di gran lunga superiore ai lavori precedenti.

L’EP, considerato quanto detto, rappresenta un ben gioco di stile da parte degli Intruder e ritrae un esperimento che, per la considerazione data ai propri fan, merita grande rispetto e quindi si segnala come degno di essere ascoltato.

Ultimi album di Intruder