Recensione: Even In Arcadia

Non c’è ombra di dubbio sul fatto che gli Sleep Token siano diventati nel giro di un paio di anni una delle nuove realtà più importanti nel mondo della musica. La band mascherata britannica ha battuto record su record, passando in poco tempo da un gruppo semisconosciuto ad una band capace di andare virale su tik tok, vendere 10 000 biglietti in 10 minuti alla O2 arena di Londra ed essere annoverati tra gli headliner della prossima edizione del Download Festival accanto a nomi quali Green Day e Korn. Oggi gli Sleep Token dopo appena due anni dall’uscita del loro terzo e seminale album Take Me Back To Eden si trovano nella scomoda posizione di dover bissare il successo e la qualità di un disco incredibile, con milioni di fan che hanno atteso Even In Arcadia in maniera spasmodica.
Il concetto dietro alla musica degli Sleep Token è sempre quella, ossia una sorta di “omaggio” alla Dea del sonno “Sleep”, con il vocalist conosciuto con il nome di Vessel che funge, appunto, da tramite e da testimone alla figura e al messaggio di questa divinità. Ovviamente dietro a questo concetto ci sono molteplici metafore e simbolismi utilizzati nella musica della band che rappresenta una sorta di viaggio interiore nel mondo del vocalist britannico. Tra riferimenti Biblici (Giardiano dell’Eden), alla cultura greca classica (Damocle), alla filmografia (il Diavolo Veste Prada) e la spiritualità, i testi degli Sleep Token si rivelano estremamente ricchi e ricercati e sembrano davvero rappresentare una sorta di catarsi personale per quanto riguarda Vessel.
Musicalmente invece, Even In Arcadia non osa troppo rispetto a quanto fatto nel precedente platter, con il solito mix ben collaudato e familiare di riffoni djent ribassati, sezioni pop, rnb, rap, beat che pescano talvolta dalla trap il tutto condensato in uno stile unico e riconoscibile, reso ancor più speciale dalla voce di Vessel, vera anima degli Sleep Token. Vogliamo difatti ricordare come la band sia essenzialmente composta da due elementi, con il vocalist accanto al batterista II (i membri III e IV sono infatti dei turnisti che non hanno contribuito alla stesura del disco). Ma la voce di Vessel è senz’alto uno degli elementi di spicco di questa band, con la sua timbrica fortemente britannica ma allo stesso tempo con quel “flavour” esotico che da un tocco enigmatico alla sua delivery vocale, fantastica sia sulle parti rappate che in quelle più melodiche, donando, in particolare a queste ultime, un senso di sofferenza e di mistero, in una band dove proprio il “fattore mistero” può essere stato in parte una delle chiavi del loro enorme successo.
Even In Arcadia nel corso della sua ora di durata non presenta sconvolgimenti nel sound, giocandosela forse anche un pochino troppo in sicurezza, senza voler rischiare eccessivamente, nonostante si abbiano comunque delle novità interessanti, come l’utilizzo del Sax In Emergence, la sezione semi-black metal con tanto di blast-beat in Caramel, il violino sul finale della title-track, parti vocali con tanto di vocoder, e in particolare alcuni nuovi “giochi vocali” che Vessel ha adottato per la prima volta su questo lavoro.
Il problema di questo album risiede soprattutto nella poca originalità dei riff di chitarra che al contrario del precedente Take Me Back To Eden si amalgamano poco al resto delle sonorità. Si ha la netta sensazione che tutti i pezzi siano stati arrangiati sulle tastiere e che i riff siano stati “incollati” perlopiù in maniera forzata su molti di essi. Per un album così ben suonato, così ricercato, ricco e particolare, la semplicità dei riff e la prevedibilità dei breakdown (soprattutto per chi è già molto familiare con la musica della band), sono senza dubbio una leggerezza, per delle parti metal che risultano spesso troppo semplici, prevedibili, già sentite, ma soprattutto forzate, come se queste debbano per forza accontentare il fan medio della band che rientra sicuramente nell’ambito della scena metal nonostante questo gruppo sia essenzialmente più improntato su altri generi. Un esempio che potremmo fare per meglio spiegare questo concetto risiede nel primo brano Look To Winward, dove c’è quella citazione scandita e ripetuta più volte, “will you halt this eclipse in me?”- una frase molto ad effetto che rimanda a quel “diamonds in the trees, pentagrams in the nightsky” che appare su Ascensionism dal precedente disco. In questo caso questa frase viene ripresa e sussurrata in maniera sofferta da Vessel esattamente come accadeva su Ascensionism, sfociando nello stesso breakdown del brano di TMBTE. Una soluzione un pochino telecomandata e prevedibile, soprattutto per un fan degli Sleep Token. Insomma è vero che “squadra che vince non si cambia”, ma a tratti alcune sezioni, sembrano inserite in maniera forzata e poco originale per una band che fa dell’originalità il suo marchio di fabbrica e per una proposta musicale che brilla quando è libera di sfociare in altre soluzioni sonore al difuori del metal.
A livello lirico, l’opener Look To Winward (un riferimento al poema del 1922 da parte di T.S. Elliot, The Waste Land), è un pezzo che esplora stati contrastanti- la luce contro il buio, la divinità contro la dannazione, il suono contro il silenzio, il sacro contro il profano- un testamento del conflitto interiore di Vessel che toccherà molteplici espressioni del suo stato d’animo, con in particolare una canzone legata agli eventi dell’anno scorso in cui sono state diffuse in rete le identità dei membri della band. Una violazione di privacy che ha colpito nelle sue fondamenta il vocalist della band che in un brano come Caramel esprime la sua frustrazione ed esplora anche la contraddizione di essere una persona così esposta e sotto la luce dei riflettori, ma che allo stesso tempo ha così a cuore la sua identità personale e il suo essere un musicista anonimo dietro una maschera – “guess that’s what I get for tryna hide in the limelight”-
“Wear me out like Prada, devil in the detail” è un’altra frase geniale dove si accusa la fanbase di aver sfruttato il lato artistico della band come un indumento fino a consumarlo, mentre nell’ultima parte della frase si vuole riflettere su come la fama sia un’arma a doppio taglio. L’accostamento poi delle parole “Devil” e “Prada” fanno ovviamente riportare in mente il celebre film del 2003 “Il Diavolo veste Prada”, una satira sulla superficialità del mondo della moda e del glamour; senz’altro un parallelismo che può essere fatto anche col mondo della musica. “The stage is a prison, a beautiful nightmare” riflette ancora sulla dualità e le sensazioni contrastanti nell’essere catapultati in un ruolo come quello del vocalist degli Sleep Token con conseguenze prevedibili che lo stesso Vessel aveva pienamente anticipato con il suo stesso “20/20 hindsight” (espressione assolutamente meravigliosa con un bellissimo gioco di parole e doppio significato). Come potete vedere, il liricismo degli Sleep Token è ricercato e raffinato quanto la musica.
Look To Winward è un pezzo che si apre trascinato e che sfocia in dei momenti alquanto spettrali, con una bellissima sezione rappata a seguito del breakdown (un pochino telefonato a dire il vero), con una meravigliosa e sentita prestazione vocale da parte di Vessel sul finale, trascinata da un delicato pianoforte prima che dei riff più pesanti ci travolgano.
Il beat raggaeton di Caramel è irresistibile così come il furioso finale di stampo quasi black metal con tanto di blast beat e voce in scream da parte dello stesso vocalist.
Soffici, volatili e ipnotici i giri di tastiera all’interno di Past Self, per un pezzo dal contorno RnB che ci ha convinto. Il primo singolo Emergence spicca anche grazie alle parti rappate di livello da parte di Vessel , anche se la parte centrale dell’album mostra qualche cedimento con un brano francamente dimenticabile come Provider.
La title-track anche non può reggere il confronto con la sua mastodontica controparte dall’ultimo disco, nonostante le soffici note di pianoforte iniziali siano davvero deliziose e ci trasportino in uno dei pezzi più mistici e toccanti del lotto. D’effetto la frase “turns out the gods we thought were dying were just sharpening their blades” (tra l’altro se ci fate caso un riferimento alle liriche di Chockehold dal precedente album). Un pezzo questo che emana un calore incredibile, in grado di trasportarti in un reame parallelo desolante ma confortante allo stesso tempo. Il ruggito di Vessel sul finale in cui “carica” improvvisamente la tonalità della sua voce ci lascia di stucco, mentre il finale con tanto di violino e pianoforte è quasi una brezza leggere che ci accarezza il volto fino alla fine del brano.
Ma il meglio secondo noi questo disco lo da sul finale con i suoi ultimi tre pezzi. Damocles è una semi-ballad da brivido ancora una volta trascinata da un pianoforte adoperato in maniera impeccabile e con quello che risulta essere il miglior ritornello di tutto l’album. Ridondanti le chitarre metal alla fine, per un pezzo che sarebbe funzionato benissimo, o probabilmente ancora meglio, senza. Detto questo gli Sleep Token hanno una capacità incredibile nello scrivere questo tipo di semi-ballad di stampo pop (come fu Euclid dal precedente disco), che riescono ad avere una marcia in più rispetto a tanti altri artisti che si adoperano in questo settore.
Ma è proprio sul finale di Damocles e sulla splendida Gethsemane che ci si accorge che gli Sleep Token hanno un batterista fenomenale che ci regala dei fill di gran livello e delle improvvise progressioni manco stessimo parlando di un disco degli Haken. Gethsemane è infatti un brano che riesce a coadiuvare una trascinante emotività con le sezioni più “progressive” del platter e con dei riff di chitarra semplici, insistenti e granitici. La sezione trap sul finale ci spiazza e dona un “twist” completamente diverso al pezzo; senz’altro la composizione più completa di questo album con una delivery sofferta e trascinante da parte di Vessel.
Infinite Baths è un’ottima chiusura con quei loop di tastiera iniziali. Il chorus del pezzo sembra davvero farci immergere in un bagno di suoni eterei e sognanti, tra malinconia e delle atmosfere sulfuree e cinematiche. Una linea di chitarra che per un momento ci ricorda quella di Shine On You Crazy Diamond dei Pink Floyd (tributo voluto?), ci conduce verso un finale entusiasmante che è un build-up di atmosfera prima di arrivare ad una delle sezioni più pesanti mai partorite dagli Sleep Token, con tanto di riffoni metalcore a otto corde e voce in scream di Vessel. Un riffing che continua ostinato e pesante fino alla fine, con dei notevoli fill di batteria per una sezione che sfuma nel silenzio.
Mettiamo subito in chiaro le cose: Even In Arcadia non è e non sarà mai al livello di Take Me Back To Eden. È un disco questo che vuole ricalcare le sonorità del suo predecessore con qualche interessante novità a livello di sound, tra sax, violino, parti in blast-beat e altro, ma che non eccelle in alcune soluzioni, specialmente nei riff di chitarra che sembrano spesso forzati , già sentiti, poco originali e che non sempre si amalgamano bene al resto. Eppure le parti metal sono solo la minima parte di un disco che altrimenti funziona e risulta essere elaborato, ricercato e avventuroso, sia nella musica che nei testi che attraversano un viaggio interiore pregno di metafore, simbolismi e tanti riferimenti culturali dal mondo della religione, della spiritualità , della mitologia e del cinema . Even In Arcadia è un disco prodotto in maniera impeccabile che farà felice i fan degli Sleep Token ma che a livello di songwriting, seppur molto buono, risulta a tratti altalenante, senza raggiungere le vette del suo ingombrante predecessore. Detto questo, esso è un disco che ci sentiamo di consigliare a tutti gli amanti della musica a 360 gradi, senza limiti e senza preconcetti. Se vi approccerete a questo disco con il solo intento di fare headbanging siete ampiamente fuoristrada, ma se siete pronti nel farvi immergere in un viaggio sonoro ricco, emozionale e muli sfaccettato, ecco che sarete ricompensati. Bentornati dunque ad una delle band più uniche, riconoscibili e affascinanti del panorama musicale moderno.