Recensione: Extrinsic Pathway

Di Daniele D'Adamo - 3 Aprile 2013 - 17:36
Extrinsic Pathway
Band: Morgengrau
Etichetta:
Genere:
Anno: 2013
Nazione:
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60

«Into the Abyss, into the Non, where everything and nothing exists. Shades await birth or destruction. Standing baffled, the penitent wail while the unrepentant take up swords. Over all, He prevails…»
 

Così si presentano al Mondo i Morgengrau, quartetto di Austin che fa della totale intransigenza old school death l’unica ragione di vita. Il genere, in sé, non ha mostrato la corda, in tanti anni di onorata carriera; dispensando con continuità a destra e manca decine e decine di act dediti a ripercorrere pedissequamente le strade di band leggendarie quali Pestilence, Asphyx e Immolation. Fra le tante, però, occorre rilevare che sono ben poche quelle ad avere una così forte dedizione alla causa; tale da fare escludere, dalla propria musica, anche il benché minimo accenno di progressione stilistica dalle ferree coordinate di base della vecchia scuola.

Difficile, cioè, trovare in giro qualcosa che suoni ‘così’ old come “Extrinsic Pathway”, debut-album registrato presso gli studi Amplitude Media della città texana poi missato e masterizzato agli Endarker Studio, in Svezia, da Magnus (Devo) Andersson dei Marduk. A cominciare dal lavandinico growling di Erika Tandy che, oltre a formare una coppia d’ascia ben assortita con Nick Norris, si rivela una cantante dal piglio rabbioso. Certamente monocorde e per nulla foriero di novità nel campo, tuttavia perfetto per lo scopo che l’ensemble si prefigge. Una ‘perfezione’ che si somma a quella di Reba Carls, female drummer che fa dello stile rozzo e involuto la propria arma vincente. La batterista, difatti, propone tempi e pattern facili ed elementari ma dotati di un groove niente affatto male. Così, quasi incredibilmente, nella loro inusitata quanto voluta arretratezza musicale i Morgengrau trovano una propria dimensione abbastanza personale, tale da farli distinguere al volo da tanti altri progetti similari.

Un sound marcio e putrefatto, quindi, che puzza di decomposizione lontano un miglio; terreno ideale per raccontare storie di morte, guerre e atrocità varie. Il songwriting non eccelle né per originalità né per varietà e ciò si poteva immaginare a priori, date le premesse. Dopo un po’, infatti, si esauriscono tutte le idee immaginabili riguardo a uno stile così essenziale e la noia, puntuale come l’arcigna mietitrice, fa capolino fra le song del platter. Non si tratta di un vizio capitale sì da inficiare totalmente il lavoro, poiché nei due episodi più lunghi (“Extrinsic Pathway” e “Polymorphic Communion”), soprattutto, qualche tentativo di elaborazione c’è, in particolar modo nell’uso di campionamenti horror che alimentano efficacemente la malsana e morbosa atmosfera che permea “Extrinsic Pathway”. Rendendo così maggiormente longevo un disco che, altrimenti, non starebbe a lungo nel lettore. Pezzi come “Antithetical” o “The White Death”, per esempio, sanno di ben poco: le linee vocali si somigliano esageratamente, i riff sono triti e ritriti così come i soli e gli intermezzi ‘rompitratta’. Davvero troppo banali per giustificarne la messa su CD per conto di una label ufficiale che, seppure ultra-sotterranea, garantisce al combo statunitense una visibilità comunque internazionale.

La completa genuinità che Erika Tandy e i suoi compagni mostrano nell’approccio alla questione («We play, you fuck yourself up in the pit. Simple»), il menzionato carattere da essi posseduto e l’indiscriminata passione per il death metal che trasuda da ogni poro di “Extrinsic Pathway” fanno sì che lo stesso possa giudicarsi con una risicata sufficienza. Poco altro di esso, a essere onesti, meriterebbe qualcosa di più di un rapido e indolore ascolto.   

Daniele “dani66” D’Adamo

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