Recensione: Firepower

Di Luke Bosio - 8 Marzo 2018 - 22:21
Firepower
Band: Judas Priest
Etichetta:
Genere: Heavy 
Anno: 2018
Nazione:
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89

In occasione dell’uscita di uno degli album più attesi del 2018, quantomeno alle nostre latitudini truemetallifere, si è pensato, così come fatto in passato per altri dischi particolarmente importanti, di sottoporre alla vostra cortese attenzione due recensioni. Nella fattispecie la prima a firma dello scrivente e la seconda ad appannaggio di Luca Bosio, altra vecchia triglia dell’HM italico che d’ora in poi collaborerà occasionalmente per il nostro portale.     

Questa la sua scheda di presentazione:

iniziato in tenera età (1979) al Rock’n’Roll grazie ai super-eroi Marvel in cui trovai paragone vivente nei KISS, ho abbracciato poco dopo la musica ‘Made in England’ dei vari: Judas Priest, Saxon, Iron Maiden e tutta la N.W.O.B.H.M. per poi passare al fronte Thrash della Bay Area di San Francisco! Iniziai a scrivere a 17 anni per Inferno Rock (primo magazine in Italia) e poco dopo sono entrato a far parte della scuderia Metal Hammer Italia/Grindzone con cui ho collaborato per svariati anni. Seguirono collaborazioni con Flash!, Metal Shock e Terrorizer (UK) fino ad essere chiamato a dirigere ROCK HARD – come capo redattore – nel 2002! Sodalizio che durò ben poco… il resto è storia attuale, dopo rientri e fughe da noti magazine il mio eterno amore per la musica metal rimane immutato.

Luca Bosio.         

 

Qui di seguito le due recensioni di Firepower, nei negozi a partire dal prossimo 9 marzo.

Buona lettura,

Steven Rich  

 

JUDAS PRIEST – FIREPOWER – STEVEN RICH

Quando alla prima passata di un album ci si esalta per la maggioranza dei pezzi che lo compongono è senza dubbio un buon segno. Meglio ancora, un ottimo segno! Senza per forza andare al Giurassico Inferiore dell’HM scomodando le abusate trombonistiche dichiarazioni su “come era bello l’heavy metal una volta”, “uscivano pochi dischi e più della metà sarebbero diventati dei classici”, “d’inverno nevicava abbondantemente e non esistevano le mezze stagioni” e spingendosi ancora più in là “i treni arrivavano in orario” – nobile pratica nella quale ho fornito il mio fattivo apporto, beninteso – casistiche come questa afferente l’ultimo parto discografico dei Sacerdoti di Giuda capitano sempre più raramente…

Per dire, di Thunderbolt dei defenderissimi Saxon di primo acchito mi impressionarono positivamente la title track “Thunderbolt” e “They Played Rock n Roll”, il loro pezzo-Motorhead. Quei due brani rimasero tali dopo più e più ascolti, senza che altri andassero a tener loro compagnia… Nel caso di Firepower, invece, come scritto sopra, le emozioni permangono a livelli di guardia su tutta la linea, indi per poco meno di un’ora, ossia la durata dei quattordici pezzi in scaletta.

Già, perché i Judas Priest con il loro nuovo capitolo griffato 2018 consegnano alla storia della siderurgia applicata alla musica l’album più scintillante e fottutamente heavy metal senza ma e senza se dai tempi di Painkiller. E scusate se è poco…

La mattanza made in Birmingham affonda nella carne di chi ascolta sin dall’opener “Firepower”: i riff di Glenn Tipton e Richie Faulkner tagliano come rasoi e il suono delle due asce porta sempre in dote quel retrogusto plumbeo che come la Settimane Enigmistica vanta innumerevoli tentativi d’imitazione.  L’ipercollaudata sezione ritmica Hill/Travis bombarda come ci si attende e Mr. Robert John Arthur Halford, classe ’51, come l’altro suo sodale nonché portabandiera del British Steel Biff Byford, tuona dentro al microfono alla consueta maniera.  

Già la copertina prometteva bene, riandando a Screaming for Vengeance sia a livello cromatico che di soggetto, invero non distante nemmeno da Defenders of the Faith, poi il fatto che sia stato tirato di nuovo in ballo Tom Allom in cabina di regia probabilmente ha fornito ai Judas quella necessaria spinta per riscoprire appieno le proprie radici, che sono poi le stesse del genere tutto, e pestare senza paura come ai vecchi tempi. “Lightning Strike” è lì da ascoltare, a mettere a terra tutti quanti i cavalli a disposizione, senza la puzza sotto al naso. 

Evil Never Dies” mazzuola nel solco della tradizionale e tradizionalista Priest maniera, mantenendo l’asticella verso l’alto. Se gli Accept vennero al mondo e poi sbocciarono definitivamente dopo aver studiato ben bene la lezione della premiata ditta Hill & Co. oggi gli stessi Judas idealmente li omaggiano con “Never the Heroes”. Ascoltate il riffing delle chitarre di questo brano, chiudete gli occhi e vedrete materializzarsi la coppia Hoffmann/Frank dei tempi che furono di fronte a voi. “Necromancer” semplicemente impressiona di meno, nel senso che tutto quanto ci si attende poi accade lungo l’ascolto… sarà l’effetto dello sfavillante poker che la precede ma tant’è.

Le quotazioni di Firepower si risollevano – si fa per dire, neh? – con la successiva “Children of the Sun”, summa dell’epica declinata in quel di Birmingham e dintorni fatta di stop’n’go e pesantezza diffusa. Il minuto della strumentale “Guardians” tira la volata a “Rising from the Sun” che, fottutamente classica nel suo incedere marziale scomoda ancora una volta l’eroica dell’Acciaio con un Halford profondo quanto serve, per poi dar man forte al coro, orecchiabile e in linea con il passato glorioso dei Sacerdoti britannici.

Quante volte, anche da altre band, ci saremo imbattuti in ritmiche similari a quelle di “Flame Thrower”? Tantissime, ma in certuni territori, se riesplorati dai maestri del genere, vi è la certezza che le emozioni rimangono inalterate, come trenta e passa anni fa, periodo Defenders of the Faith, per capirci. Magia della musica, magia di gruppi come i Priest. Durezza nelle lame delle due asce a non finire in occasione di “Spectre”, il pezzo più introspettivo del disco, a pelle, ma anche quello destinato a crescere di più negli anni.

La mollezza dell’inizio è fuorviante, l’HM made in England entra sino al midollo poco dopo, man mano scorre “Traitors Gate”, altro episodio senza macchia e senza paura di Firepower. Echi dal passato remoto priestiano lanciano “No Surrender”, brano che si regge sui cori e sulla quella melodia funzionale al pezzo che solo un ristretto parterre dei roi sa coniugare senza perdere un’oncia del proprio gradiente siderurgico. Dopo tanta magnificenza e Fede tradotta in musica capita che la pesante sebbene tutt’altro che brutta “Lone Wolf” passi senza incidere particolarmente e si chiude con i quasi sei minuti di “Sea of Red”, il lentone di turno. Niente miele a perdere, sia chiaro: un brano ficcante ove anche l’enfasi è dosata, con un suono alle casse per nulla stracarico, nettamente in controtendenza rispetto a casistiche similari ad altre latitudini. Episodio figlio di un’educazione metallica antica, peculiarità che lo preserverà e gli permetterà di godere dei favori dei fan da qui all’Armageddon.    

Ai Judas Priest va riconosciuta l’onestà di avere scritto dei pezzi ottimamente prodotti che poi sapranno eseguire anche dal vivo… A buon intenditore poche parole…    😉  

Il resto lo racconta la loro storia, quella già consegnata ai posteri, in attesa di scrivere nuovi capitoli.                    

Suoneranno a Firenze il prossimo 17 giugno.

Firepower: diretto, massiccio, senza fronzoli. Semplicemente i nostri hanno realizzato un disco con quello che sanno fare meglio, senza menate né chissà quali mire avanguardiste.

Valutazione: 88/100

 

JUDAS

PRIEST

HEAVY

FUCKING

METAL

 

Stefano “Steven Rich” Ricetti

 

 

Ps: recensione Luca Bosio sotto fotografia Rob Halford qui di seguito… 

 

jp3

Robert  “Rob” John Arthur Halford – Judas Priest

 

JUDAS PRIEST – FIREPOWER – LUKE BOSIO

Tic-tac…tic-tac…tic-tac… L’inesorabile trascorrere del tempo…tic-tac…tic-tac…tic-tac… Il tempo non si può fermare, non si può manipolare e guarda sempre e soltanto in un’unica direzione: in avanti! Nella musica, come nel cinema, nello sport e nella vita, tutti noi siamo soggetti ai cambiamenti determinati dal mutare degli eventi. Gli eroi di un tempo hanno iniziato da un po’ il loro lento declino e consapevolmente sono pronti a dire: “Arrivederci e grazie!”. Gli iniziatori di prima fascia, capostipiti di genere, anch’essi un tempo giovani 25/30enni si stanno avviando verso la meritata pensione in vista della della settantina, quando non l’hanno già superata. I Black Sabbath sono andati, i Rush hanno chiuso bottega, Scorpions e Kiss stanno sparando le ultime cartucce e ora siamo giunti al capolinea della corsa dei maestri Judas Priest. Nulla dura per sempre, e lo sa bene Glenn Tipton, chitarrista/compositore inglese e colonna portante di uno dei tre gruppi in assoluto più influenti della musica metal che, quasi in concomitanza con l’uscita del nuovo lavoro della sua band, ha deciso di ammainare le vele e non proseguire con la band per l’imminente tour mondiale, causa grave malattia degenerativa in progresso.

Da fan quali siamo, potremmo sentirci persi senza Mr. Tipton, e non vederlo più sul palco sarà un colpo al cuore, allo stesso modo in cui avevamo accusato il colpo alla notizia del ritiro del biondo iconico KK Downing, l’altra colonna della band, avvenuto ormai sette anni fa. Per noi, old school metalheads, l’incurabile nostalgia per gli anni ottanta è sempre tanta, l’uscita di un nuovo album di uno dei nostri miti inossidabili – tra i veri eroi di quell’indimenticabile decade – ci fa subito drizzare le antenne ponendoci sul chi va la in un secondo! Gli indizi sono chiari e lampanti sin dai colori della copertina si capisce con cosa abbiamo a che fare! Infatti bastano poche battute per confermare la nostra ipotesi, basta un solo semplice accordo distorto di una qualsiasi delle canzoni qui presenti per identificare la classica musica priestiana: chitarre che fischiano e tagliano come lame di un rasoio, una batteria che pare un’esplosione nucleare e la voce dell’unico e inimitabile Metal God che squarcia ancora una volta un cielo rosso sangue! È evidente l’impronta epico/teatrale che hanno voluto usare come un filo conduttore di questo lavoro.

Probabilmente si adatta meglio alla voce attuale di Halford. L’istintività e la rabbia sono ancora presenti ma contenute e distribuite sapientemente in favore della melodia che riecheggia dischi di assoluto valore come Screaming For Vengeance e Defenders of The Faith. E di melodia in questo disco ce n’è a profusione: nei ritornelli, negli arpeggi e nelle e nelle chitarre armonizzate. Insomma, non è un treno in faccia alla Painkiller tanto per intenderci! I paragoni con Redeemer Of Souls non sono così lontani – troverete molti punti di riferimento – come detto il modo di comporre dei Judas ormai verte molto più sull’epicità (sempre presente in sottofondo) e meno sul pugno diretto, ma questa volta la band ha dato il meglio di se elevando il sound all’ennesima potenza!

La mano sapiente di Tom Allom (il sesto membro della band, come veniva definito negli eighties), ritorna dopo anni a lavorare con i Priest. Il suo contributo in fase di arrangiamento si sente veramente tanto, unitamente alla produzione stellare cui il deus ex machina Andy Sneap ci ha abituati da tempo rinvigorendo il sound di Exodus, Accept, Saxon e Testament! Pur seguendo costantemente la band da più di 30 anni, ricordo solo Painkiller come loro album che mi abbia preso così tanto sin da subito come ha fatto questo. Parlo di disco nel suo complesso, non di singoli pezzi (per quello vincono ancora cose leggendarie tipo Sinner, Freewheel Burning, Night Crawler, Desert Plains, Hell Bent For Leather o Riding On The Wind, senza voler necessariamente citare quella Painkiller responsabile di innumerevoli pogate contro il muro e scoppi di odio cieco verso chiunque non abbia neanche un disco dei Judas Priest in casa).

Ma, calcolando che siamo arrivati alla diciottesima prova in studio, c’è solo da rimanere stupiti! E’ come assistere all’apogeo del velocista,in cui tendini,muscoli e articolazioni lavorano letteralmente “a mille”, spremuti oltre ogni limite umanamente immaginabile. Non c’è autocompiacimento estetico che tenga, proprio come l’atleta lanciato verso il più prestigioso alloro dell’intera carriera, qui ci sono solo sangue, lacrime, sudore e passione! Ed è esattamente questo che rende Firepower l’ennesimo classico targato Judas Priest!

L’urlo di guerra del comandante Halford da il via alle ostilità con la dirompente title-track seguita a ruota da Lightning Strike che a forza di ascolti è ormai entrata in circolo. Entrambe ci ripresentano i Judas Priest in forma smagliante, mentre macinano riff su riff con una freschezza compositiva che non avevano più da anni. Speriamo le abbiate assimilate a dovere, dato che sono disponibili online ormai da alcune settimane a scopo introduttivo/promozionale dell’opera. Da qui in poi, si spalanca la bibbia del metallo urlante dove ogni canzone si unisce mirabilmente all’altra come in una furibonda corsa su montagne russe prive di controllo.

Ragazzi miei, qua dentro c’è roba clamorosa come Necromancer, Flame Thrower e Traitors Gate – tra le migliori del disco – brani che ti fanno tornare ai tempi di Screaming For Vengeance; o anthem da pugno alzato e stadio in visibilio come No Surrender col testo (‘Chasing the dream as I go higher // Playing at me – My hearts on fire // Living my life – Ain’t no pretender – Ready to fight with no Surrender’) da cantare tutti in coro mentre si viaggia verso un festival estivo o ancora la commovente e cinematografica super-power-ballad Rising From Ruins (ammetto di aver pianto dopo il primo ascolto) e ovunque la solita selva di riff taglienti come le spade laser Jedi e che fischiano nell’aria con una frequenza che neanche la definitiva battaglia tra Darth Vader e Luke Skywalker. Sorrette dalla batteria di Scott Travis che cerca in ogni modo di farti esplodere le casse. Le chitarre di Glenn Tipton e di Richie Faulkner letteralmente infuocate, si producono in assoli non appartenenti al nostro sistema solare. Ma soprattutto c’è la voce di Halford, che dà sempre l’impressione di dover uscire da un momento all’altro dagli amplificatori con la sua palandrana di cuoio borchiato per prenderti a pugni in faccia finché non muori. Inutile ovviamente soffermarsi sui testi, che come è giusto che sia, parlano solo di gente che fa risorgere cadaveri, esplosioni nucleari ed heavy metal. Children Of The Sun pare uscire dal vinile di Stained Class, un mid tempo perfetto con un passaggio epico-melodico a metà brano pazzesco dove Rob Halford ci ricorda il motivo per cui viene da tutti chiamato The Metal God! Epocale!

Evil Never Dies è un uppercut allo stomaco, degno di Mike Tyson nel pieno della sua potenza: sound spinto dalle sonorità più dure del pentagramma che esplodono come una mina antiuomo nel Vietnam. Il passaggio centrale alla The Sentinel (anche se meno dilungato) è di gran classe, ben dosato e clamorosamente ben arrangiato nei suoi passaggi musicali. Ottima Spectre la cui intensità tipicamente “pounding metal” ottantiana è smorzata dall’improvvisa esplosione di meravigliosi assoli che si intrecciano mirabilmente con la voce tagliente di Halford, mentre Lone Wolf è un mid tempo oscuro e pieno di rabbia che rallenta il ritmo ma crea un’atmosfera notturna decisamente lugubre. Sea Of Red è la classica ballata drammatica che conclude il disco e suona triste e dolce al tempo stesso. Una sorta di Before The Dawn 2.0. e allora corri, quasi voli, senza alcun timore sospinto dalla voce di Rob Halford leggera con la brezza mattutina che lo benedice su delicati arpeggi di chitarra acustica, sino all’entrata in pompa magna di tutta la band, unitamente a tastiere che rinforzano la struttura simili a quelle utilizzate in passato sul ‘Diario del Pazzo’ (non l’album, ma la canzone di Ozzy).

Fortunatamente la formula a 14 brani non ha incluso inutili filler – un po’ la pecca riscontrata nel precedente Redeemer Of Souls – un’ora intensa che vola via veloce come fossero trascorsi solo 20 minuti dal suo inizio. Questo è un disco carico, intenso, pervaso di classico metallo Made in England. Fatto con il cuore da tutte le angolazioni lo si guardi: musicalità, performance e produzione sono al top. Con Firepower, il prete di giuda ci consegna quello che, al 90%, va considerato come l’epitaffio sonoro di una carriera musicale che ha avuto pochissimi eguali nel rock duro. Chi diavolo ha detto che i monumenti epici scolpiti dai 20 ai 30 anni non possono essere replicati quando si ha più del doppio dell’età? Vecchi? Superati e prevedibili? Può essere, ma dinnanzi a siffatta penetrazione metallica non c’è che da inchinarsi!

Firepower non è solo il disco che ti saresti aspettato dai PRIEST; Firepower è il disco che avresti voluto, dai Judas Priest. Un disco che nel 2018 ancora una volta rappresenta ‘il metallo’ nella sua essenza più pura! Da riporre con assoluto rispetto e rigore al fianco di Sad Wings Of Destiny, British Steel, Screaming For Vengeance, Defenders Of The Faith e Painkiller.

Valutazione: 90/100

Luke Bosio

 

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Rob Halford – Judas Priest

 

 

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