Recensione: Forgotten Shades of Life

Di Susanna Zandonà - 22 Agosto 2022 - 15:14
Forgotten Shades of Life
Band: Shiraz Lane
Etichetta: Ranka Kustannus
Genere: Hard Rock 
Anno: 2022
Nazione:
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75

“Forgotten Shades of Life” è il terzo full-length album che va ad arricchire la discografia degli Shiraz Lane, band hard rock formatasi nel 2011 a Vantaa (Finlandia)

I cinque componenti Hannes Kett (voce), Jani Laine (chitarra), Miki Kalske (chitarra ritmica), Joel Alex (basso) e Ana Willman (batteria) si contraddistinguono fin dagli esordi per importanti meriti artistici.
Nel corso del 2015 pubblicano un 5-track EP, “Be The Slave Or Be The Change”, che li porta a girare la maggior parte dei summer festival nazionali ed a bazzicare il “Wacken Open Air” in Germania. Fanno quindi da spalla ai Lordi nel tour europeo del 2016, presentando il loro album di debutto “For Crying out Loud” per poi rilasciare qualche anno dopo “Carnival Days” (2018), che gli garantirà il biglietto d’accesso al tour europeo della durata di un mese con gli H.E.A.T (con grande successo di pubblico nella data italiana di Bologna).
Un curriculum di tutto rispetto per una band presente sul mercato da una decina d’anni, che recentemente ha addirittura avuto l’onore di accompagnare il tour europeo dei Crashdiet e di aprire il concerto dei Kiss ad Helsinki.

Forgotten Shades of Life” è l’album che segna il passaggio dalla fase embrionale iniziata in “Carnival Days”, a favore di una più concreta forma di organismo dotato di abbondante ricchezza creativa dalla quale trapelano numerose influenze. Ma che nel complesso risulta ancora in cerca di un’ identità più definita.
L’impronta sleaze presente nei precedenti lavori (riconducibile a gruppi come gli Skid Row) è sicuramente marcata, ma il suono “grezzo” – tipico di questo genere – è temprato dalla presenza di numerosi espedienti in grado di mitigarne la spigolosità.

In “Back to life” gli Shiraz Lane aprono con grinta: batteria a spingere e un riff di chitarra convincente che da l’effetto di un calcio prepotente sferrato alla porta, cui subentra poco dopo la voce roca di Hannes. In “Maniac Dance” abbiamo una presenza funky quasi estraniante, che però si sposa perfettamente con il leit-motiv espresso dalla lyric. Il range vocale di Hannes, però, si manifesta nella sua completezza all’ interno delle atmosfere più complesse e cupe di “Scream”, un vero e proprio percorso nelle profondità psicologiche e nei pensieri inconsci, il quale invita ad affrontare i propri demoni con speranza e determinazione: “I get the feeling / I gotta get up / it’s growing in me / but I try to hold on” e a concludere: “but I will not lose hope / ain’t screaming alone / no more”. Un bel messaggio per una delle canzoni più convincenti dell’ album.

“Forgotten Shades of Life”, pezzo che battezza album, sorprende con un’ intro da far west che ricorda vagamente un Bon Jovi alle prese con il debutto solista negli anni ’90 di “Blaze Of Glory”, con l’unica differenza che le chitarre, qui, risultano leggermente più arrabbiate e i toni generali hanno un che di allucinogeno, come reduce da un veloce trip nel rock duro anni ’70.
“Beat of your heart” è un rapido cambio di rotta verso una classica ballad folk, che però ha tutta l’impressione di essere stata messa lì giusto perché ci doveva stare. Con “Animal” torniamo al buon vecchio hard ‘n’ heavy che fa venire voglia di scatenarsi. Ma il piccolo azzardo lo abbiamo decisamente in “Disconnect from the Matrix”. L’effetto che si ha ascoltandola in successione alle altre canzoni presenti nell’ album, può essere definito solo che destabilizzante – come nel film omonimo, appunto – risultando un motivo più attribuibile ad una band genere “Him” che ad una hard rock.

Nella mia mente rievoco la scena con il dialogo del primo Matrix (1999). Il bambino dice a Neo: “Non cercare di piegare il cucchiaio. E’ impossibile. Cerca invece di fare l’unica cosa saggia: giungere alla verità”.
Al che il povero Neo un po’ spiazzato risponde: “quale verità?”. “Che il cucchiaio non esiste”.
Forse ne è complice il fatto che in “Haunted House” abbiamo un altro cambio inaspettato, passando ad un shock rock che si tinge di horror e cambia di nuovo repentinamente in “Who’s Watching” aperta da una bella intro di sassofono ed una chitarra con assoli degni di Carlos Santana.
E tutt’ora mi sto chiedendo di quale cucchiaio stiamo parlando…
“Letter to yourself” è un’ altra ballad che nel particolare ricorda molto il Brian Adams di (Everything I do) “I do it for you”: qui l’accompagnamento di pianoforte impreziosisce il brano regalando intensità alla voce calda di Hannes. Ma è “Imagination” che più stupisce con un’ armonia inaspettata, ricca di suoni cristallini, per poi aumentare in progressione.

Un album che racconta a pieno l’instabilità del periodo post Covid-19, affrontandone le problematiche e le difficoltà, ma che si discosta troppo dai precedenti, generando qualche dubbio. Un percorso sensoriale e uditivo che descrive un’evoluzione, sicuramente in positivo, ma che va amalgamata meglio.

La sensazione che ne deriva è che nella pianifica del percorso, gli Shiraz Lane, abbiano utilizzato un espediente al pari di Arianna – che per non perdere la rotta in mezzo ai cunicoli del labirinto di Minosse si è avvalsa del proverbiale filo – ma che infine il loro stesso espediente li abbia beffati, ingarbugliandoli.
L’insieme risulta gradevole ma non “relatable”, come usano dire gli anglosassoni. O, se vogliamo, un filo spiazzante.
Rimane, a questo punto, la curiosità di capire la direzione che prenderà il prossimo lavoro…

 

 

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