Recensione: Fortitude

Di Gianluca Fontanesi - 25 Aprile 2021 - 15:34
Fortitude
Band: Gojira
Etichetta: Roadrunner Records
Genere: Groove 
Anno: 2021
Nazione:
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75

Il settimo album dei Gojira è uno dei più attesi di questo 2021 pandemico ed esce in un periodo di grande incertezza; secondo le parole di Joe Duplantier, la forza d’animo è appunto ciò che l’essere umano dovrebbe mostrare per far fronte a questo status. E da qui nasce Fortitude. Un messaggio positivo che volta la spalle all’odio e che vorrebbe spingere le persone a cercare il meglio di loro stesse, esulando da violenza, ignoranza e cattiveria.

Coi Gojira in studio ci eravamo salutati cinque anni fa: Magma fu un disco inaspettato, controverso e nato in un periodo dove i fratelli Duplantier persero la madre, a cui erano molto legati. Il sound dei francesi diventò un’entità oscura, poco definita e claudicante, che trasmise una grande incertezza e gettò un po’ di fumo su una band che fino a quel momento non aveva mai sbagliato un colpo.

Fortitude rimette in parte le cose a posto e il trittico iniziale è una buona dichiarazione di intenti. Il disco si apre coi tre singoli finora pubblicati, che sono allo stesso tempo croce e delizia dell’opera: Born For One Thing picchia a dovere e offre un ritornello di facile presa che, unito a un ponte devastante, rende il brano un buon inizio di ostilità. Nulla però in confronto ad Amazonia, che è un capolavoro e di gran lunga il pezzo migliore dell’album. Sperimentazione e contaminazione ad alti livelli, un ritorno al tribale fantastico e linee vocali grandiose. E’ la Roots Bloody Roots di questi anni, vale il brezzo del biglietto e dal vivo farà sfracelli. Another World invece è un brano che risulta debole anche dopo parecchi ascolti: abbastanza telefonato nel riff e fiacco nel ritornello, con quella malinconia artefatta che a lungo andare diventa stucchevole. Ottimo invece il ponte, che sfiora trame progressive e psichedelia.

I Gojira non hanno abbandonato le sperimentazioni e l’incipit di Hold On ne è una chiara conferma: le voci hanno un piglio spaziale e sono sorrette dalla cassa in solitaria. Quando poi il tutto si distorce diventa un altro brano e rende l’introduzione avulsa dal resto, vanificandone la buona idea. Il ponte vira sul post rock e sul tapping trademark dei Gojira presente praticamente ovunque e si chiude lasciando l’ascoltatore con un bel punto di domanda. New Found riporta l’album su coordinate più aggressive ed è il brano più lungo in assoluto. Funziona sia nella strofa che nel ritornello, di facilissima presa e radiofonico; quando sembra stia per finire inizia una parte devastante che, nonostante non sia legata benissimo, fa il suo dovere e conduce il brano verso l’epilogo sfumando.

Discorso a parte per la titletrack e The Chant, che possiamo considerare come un’entità unica divisa in due parti. La prima che praticamente è un intermezzo acustico, quasi country, dove si introduce il tema e la seconda dove si sul tema ci si costruisce un pezzo. Facessero sentire una cosa del genere senza dire la band, riconoscere i Gojira sarebbe quasi impossibile, provare per credere. La cosa sorprendente è che il tutto, praticamente basato su o-o a-o-o, funziona alla grande e diventa presto una droga. Molti probabilmente qui grideranno allo scandalo, sbagliando.

Sphynx torna al metallo e la strofa è più brutale del solito; buono il riffing e il solito ritornello arioso ormai arriva a somigliare agli altri.  Into The Storm, invece, preme finalmente il piede sull’acceleratore e i Gojira tornano a pestare in maniera più convinta. Il ritornello easy arriva puntuale come le tasse ma in questo caso è buono e funziona in maniera più che soddisfacente. Ottimi incipit e ponte con batteria a elicottero; finale pazzesco ma che, purtroppo, dura solo un paio di battute.

The Trails che ci fa qui? Dovessimo stilare una classifica dei peggiori brani dei Gojira, si giocherebbe tranquillamente il titolo e lo vincerebbe anche a mani basse. Si tratta di un mezzo post rock con un riff flaccido, voce in clean poco convinta, dei sussurrati inutili, un ritornello che fa finta di apparire una volta e un finale che fortunatamente tronca tutto in maniera improvvisa lasciando l’ascoltatore basito. Fatevi un favore: programmate la tracklist a dieci brani estromettendo questo inutile lamento.

Grind invece, posta in conclusione, si fa perdonare ampiamente distribuendo delle sane legnate. E’ il brano più potente di Fortitude, dove Mario sembra un indemoniato e i francesi tornano a quella cattiveria primordiale che tanto di loro avevamo apprezzato. Il ponte lascia il giusto respiro, questa volta non supportato dalla voce e introduce il tema che poi concluderà più che degnamente l’album.

Tirando le somme, Fortitude non è Magma, ma nemmeno The Way Of All Flesh. L’impressione che si ha è quella che la band di Bayonne sia stata costretta a tornare indietro in un momento in cui avrebbe voluto andare in un’altra direzione. Il disco continua sempre e comunque a imboccare delle tangenti appena possibile, a volte in maniera grandiosa, altre in maniera pessima. I brani classici e pesanti hanno tutti la stessa struttura con strofa “urlata” e ritornello in clean il più easy e radiofonico possibile, cosa che alla lunga potrebbe stufare e scontentare qualche fan. Possiamo quindi considerare Fortitude come un disco che tiene il piede in molte scarpe e come una tappa di passaggio verso un punto di arrivo che ancora non appare chiaro e definito. Ci sono tantissime frecce buone in questo arco, ma alcune fanno cilecca e alcune ancora una volta divideranno. La verità come sempre sta nel mezzo; quello che è oggettivo è che, se con Magma in cielo volava del plancton, con Fortitude si torna invece a intravedere qualche balena.

Bentornati.

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