Recensione: Fulton Hill

Di Emilio Sonno - 6 Giugno 2004 - 0:00
Fulton Hill
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Anno: 2004
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65

Non fatevi trarre in inganno dall’etichetta produttrice e date un’occhiata pure al genere sotto segnalato.
Sorpresi? Non credo! E’, d’altronde, risaputo, che la Relapse non faccia soltanto la gioia degli extreme metaller più incalliti e sanguinari, dando, come in questo caso appunto, ampio spazio a categorie un po’ più “tranquille”.
Gli americani – e come poteva essere altrimenti? – ATP non dev’essere un caso che abbiano scelto un monicker che risulta particolarmente assonante con quello dei leggendari Nashville Pussy.
Non è però nè dall’Alabama, nè dal confinante Tennessee che arrivano i nostri, bensì da Richmond, capitale della Virginia e capitale anche della Confederazione del Sud, durante la guerra di Secessione, tanto per elargire un po’ di cultura spicciola agli appassionati di storia a stelle e strisce.
Giunti ormai al full lenght numero cinque, il combo in questione esporta nel vecchio mondo una musica costituita da un rock’n roll molto ruvido, un po’ motörheadiano, che frequentemente si lascia andare a nostalgici rimandi al passato, attraverso inserti dal sapore fortemente southern, e dalle melodie proprie dell’heavy britannico dei primordi, battezzato, su tutti, da Steve Harris e soci. Lungo il corso del cd trovano ampio spazio parentesi acustiche, parti doom e, di tanto in tanto, sembra pure di risentire quasi i vecchi Kyuss: gli, a detta di molti, inarrivabili re del vero stoner.
La rivisitazione di tutte queste glorie è rielaborata secondo un’attitudine più moderna che mostra il combo intento ad ingegnarsi per trovare soluzioni che rendano originali e, al contempo, non troppo monotoni i 68 minuti del platter. Un “dirty, kick-ass Rock-N-Roll”, come a loro piace definirlo, che soprattutto con le prime composizioni si avverte ricco di una consistente varietà di ispirazioni e di songwriting che tende, però, a dissolversi col procedere dei brani.
Da poco dopo la metà in poi, inizia difatti ad emergere una certa povertà di spunti effettivamente validi come invece in precedenza, che non viene aiutata, di sicuro, dall’ingente durata di alcune tracce, talvolta – consentitemi – inutilmente lunghe; lo scorrevole incedere del disco finisce, così, col perdere la sua efficacia, scontrandosi con una palese ripetitività che lo porta ad avere un carattere decisamente monocorde e incolore, ed è un vero peccato.
Se, infatti, l’album può non piacere subito ad un primo ascolto, la sua energica carica tende col tempo ad appassionare, riuscendo infine a convincere della genuinità del prodotto, senza però che ciò riesca comunque ad entusiasmare mai eccessivamente proprio per via della difficile digeribilità di canzoni che usano, e abusano, in maniera notevole delle stesse idee.
E’ pur vero che il genere non richiede quest’incredibile molteplicità di soluzioni, ma, appunto per questo, rimane ostico (leggasi pure “tedioso”) ascoltare, se non a chi è abituato, quel ciclico alternarsi dei soliti due/tre giri per più e più minuti, come è possibile rendersi subito conto con la country semiballad Do Not, la pur breve Sociopath Shitlist e in parte con Bear Baiting, …per non parlare della controversa e conclusiva Struggling for Balance!
Per par condicio, usando un termine quanto mai adatto visto il contesto pre-elettorale nel quale ci troviamo, bisogna dare a Cesare quanto gli spetta, riconoscendo l’ottima qualità di altre meritevoli song: R.R.C.C. è probabilmente quella che ho maggiormente apprezzato, almeno a giudicare dal fatto che non perdo occasione per canticchiarla.
Un episodio incredibilmente trascinante, con i suoi ritmi serrati, una voce particolarmente ispirata, chitarre old style che non disdegnano qualche riffing più moderno e intrecci assolutamente ben riusciti. Ha il passo pesante e apparentemente lento Wage Slave che sembra essere la naturale evoluzione della traccia precedente e che non potrà lasciarvi, anch’essa, assolutamente insensibili al suo ascolto.
Di tutt’altra pasta è fatta l’opener, Such is Life, che con un basso vellutato e sinuoso vi avvinghierà in una morbida morsa che presto diventerà fatale con l’emergere delle distorsioni “rockettose”, accompagnate dall’aspra ugola del singer, alquanto simile a quella di Spice , ex-Spiritual Beggars, altro importante gruppo di riferimento per gli Alabama Thunderpussy.
Se poi vi siete mai chiesti cosa potrebbe venir fuori da una jam session fra i suddetti S.B. e i mitici Molly Hatchet non siete mica tanto normali, comunque sia, selezionate Three Stars e lo statunitense 5-piece risponderà, con molto talento, al vostro strampalato quesito, suscitando sicuramente, in voi, impressioni positive.
Dovendo giungere dunque alle conclusioni, come già avrete capito, questa release, nel suo complesso, viene ammorbata da canzoni troppo poco dinamiche mentre, a mio giudizio, la band farebbe meglio a concentrarsi maggiormente su episodi brevi e vincenti come quelli presenti nella prima parte di questo Fulton Hill che rimane decisamente sconsigliato ai vari neofiti, i quali pure qualche gradita sorpresa invero l’avrebbero, riservandone l’acquisto, al più, a coloro che di tali sonorità ne hanno fatto una ragione di vita.
Emilio “ARMiF3R” Sonno

Tracklist
01. Such is Life
02. R.R.C.C.
03. Wage Slave
04. Three Stars
05. Bear Baiting
06. Infested
07. Alone Again
08. Lunar Eclipse
09. Blasphemy
10. Do Not
11. Sociopath Shitlist
12. Struggling for Balance

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