Recensione: Ghost of a Blood Tie

Di Alessio Gregori - 13 Maggio 2016 - 10:00
Ghost of a Blood Tie
Band: Elvaron
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2016
Nazione:
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80

Recensisco con piacere il nuovo album degli Elvaron, progressive metal band di origine francese fondata nel 1993 con all’attivo già quattro album, quindi non proprio una giovane promessa del panorama musicale, ma una realtà di veterani con alle spalle tanta esperienza e capacità consolidate. Il lavoro in questione, Ghost of a Blood Tie, è un concept i cui testi sono stati realizzati grazie alla collaborazione di una nota scrittrice francese di genere fantasy di nome Melanie Fazi, la quale ha vinto anche dei premi importanti in campo letterario. Già questo di per sé è un segnale indicativo di quanto gli Elvaron desiderino proporsi con professionalità al pubblico, senza lasciare nulla al caso e mostrando una certa cultura e apertura a soluzioni innovative e variegate. Ed è proprio questo il tema che caratterizza le loro composizioni, molto ricercate e impreziosite da tanti particolari, a volte decisamente interessanti e piacevoli, altre volte forse ridondanti.
Il pianoforte, ad esempio, è uno strumento affascinante, ma, se abusato, si può rivelare un’arma a doppio taglio che rischia di creare delle atmosfere un po’ troppo “demodé” che stridono con l’uso della modernità degli altri strumenti. I Savatage, volendo citare dei mostri sacri, sono maestri indiscussi nell’utilizzo del duo chitarra elettrica/pianoforte e hanno saputo creare opere uniche e immortali, che ancora oggi rappresentano un punto di riferimento assoluto; gli Elvaron, invece, pur dimostrando una grande padronanza tecnica e artistica, si lasciano andare in lunghi fraseggi che in certi casi rischiano di togliere un po’ di mordente e di freschezza alla loro composizioni.
L’album si apre proprio con un pezzo strumentale “The Journey Within” lungo sette minuti, scelta insolita visto che siamo abituati a delle intro brevi che fanno da apripista al brano successivo. La commistione di tanti generi e influenze qui si sente subito: si spazia da momenti più heavy, che ricordano i classici degli Iron Maiden, a stacchi più classici e sinfonici (con tanto di organo), per tornare torna poi su lidi più progressive con reminiscenze di Shadow Gallery e Symphony X. Il brano successivo, “Silent Windows”, si apre con l’inconsueto uso della fisarmonica per lasciare poi spazio alla voce un po’ roca e un po’ aggressiva di Matthieu Morand, cantante che riesce a creare dei buoni contrasti, forse un po’ piatto in certi momenti, ma in generale mai fuori dal contesto. Il pezzo prosegue con tanti fraseggi che ricordano molto i Dream Theater dei tempi migliori.
Segue quello che a mio parere è il brano di maggior presa, il singolo tanto per intenderci, si tratta si “A Price to Pay” con una durata di poco superiore ai cinque minuti. La canzone parte subito con un riff veloce di facile presa, per poi passare a un ritmo più cadenzato, un po’ Iron Maiden, un po’ Symphony X, ma quello che colpisce maggiormente l’ascoltatore è la voce della cantante lirica Laura Kimpe, gradita ospite che rende il tutto ancora più particolare e ricercato. Grande lavoro finale di tastiere, nel complesso un pezzo da ricordare. “From a brother to a Shadow” è invece una traccia più oscura, tormentata, con la voce di Morand quasi ossessiva e sofferente. La parte strumentale di questo pezzo mi ricorda tanto i ritmi dispari tanto amati dai Fates Warning in A pleasant shade of Grey. Si tratta di una prova che mette in evidenza le indubbie capacità tecniche del gruppo. La canzone poi alterna clean vocal a momenti di tregua a parti nuovamente veloci e anche un po’ epiche. Forse solo il coro finale è un po’ sottotono e poco convincente, ma anche in questo caso il livello è abbastanza alto. “No Town Of Mine” è forse il pezzo meno di presa di tutto l’album, si tratta della classica ballata che, però, viene un po’ rovinata dall’uso inaspettato di quella voce roca e aggressiva del cantante che in questo caso c’entra poco con l’idea di partenza.  Dopo una pausa di pianoforte, la canzone si riprende nella parte strumentale, indubbiamente il punto di forza degli Elvaron, una spanna sopra a tanti altri gruppi progressive metal derivativi.  La partenza di “Run Away in Fright” non convince all’inizio, con le sue reminiscenze anni 70, ma poi recupera interesse, non appena gli strumenti iniziano a entrare in scena, con la solita perizia tecnica e la voce di Morand, che magari può non piacere, ma che porta con sé quella teatralità tipica di John Oliva. Qui, infatti, le somiglianze con i Savatage si fanno sentire parecchio. “Distant Shores” è un bel pezzo di pianoforte, breve e rilassante, con clean vocal ma che al tempo stesso mette in evidenza i limiti canori di Morand, più a suo agio nella parti aggressive e veloci che non in quelle più melodiche e dolci. L’album si conclude con la lunga “The Man Who Wears My Face” (oltre quindici minuti) che racchiude tutto quello che abbiamo sentito in precedenza. C’è da dire che anche in questo caso l’ombra dei Savatage aleggia imprescindibile.
In conclusione Ghost of a Blood Tie è un album molto eterogeneo che può accontentare davvero tanti gusti e che dovrebbe avere una presa su un vasto pubblico. Sembra strano che gli Elvaron non godano di una fama maggiore, speriamo con questa recensione di aver dato il giusto merito a una band che sa davvero il fatto suo e che potrebbe candidarsi a un ruolo importante in ambito prog. Forse non si tratta di un capolavoro assoluto, tuttavia l’acquisto è consigliato a tutti gli amanti delle sonorità ricercate e progressive.

 

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