Recensione: Heavy Yoke

Di Daniele D'Adamo - 20 Novembre 2018 - 17:56
Heavy Yoke
Band: Azusa
Etichetta:
Genere: Alternative Metal 
Anno: 2018
Nazione:
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78

Azusa, cioè la sperimentazione metal spinta ai massimi livelli o quasi.

Azusa che, formatisi quest’anno, sono subito stati in grado di dare alle stampe il proprio debut-album, “Heavy Yoke”. Non male, per una formazione che ha ancora sulle labbra le tracce del latte materno. Certo, i singoli musicisti non sono affatto di primo pelo, avendo militato o militando in formazioni quali The Dillinger Escape Plan, Extol e Sea + Air. Tuttavia, mettersi assieme ed elaborare un prodotto musicale completo e complicato come “Heavy Yoke” non è roba da tutti i giorni.

Difficile anzi impossibile battezzare con sufficiente approssimazione quale sia il genere interpretato dalla formazione internazionale (Norway, USA, Greece). Anche la più elevata concettualizzazione  non è sufficiente a discernere con certezza una foggia musicale che sfugge continuamente dalle mani al variare delle song. I due elementi abbastanza comuni, nel sound dei Nostri, sono una bella dose di potenza e l’interpretazione rabbiosa, acida e spesso aggressiva della vocalist ellenica Eleni Zafiriadou; capace di cantare in growling, in screaming e… à la Kate Bush (sic!). Pertanto, almeno due pezzi del rompicapo si allineano agli stilemi di base del thrash e dell’hardcore, con richiami al death e al metalcore. Si badi bene, sottospecie metal che serve solo, praticamente, a indirizzare gli Azusa verso qualcosa di almeno tangibile, per i fan del metal stesso.

Nella realtà dei fatti, “Heavy Yoke” è un full-length indefinibile, calibrato su un caleidoscopio di fogge artistiche e assonanze con decine di gruppi, da non elencare nemmeno poiché servirebbero solo a confondere ulteriormente le idee e a intorbidire le acque. Un pot pourri che, però, quasi… incredibilmente, è in grado di mantenere una coesione costante lungo tutto l’arco della durata del platter. Sì, perché, alla fine, dopo molti e molti ascolti, l’impossibile stile degli Azusa, piano piano, si fa strada nel cervello prendendo le misure con gli usuali concetti di psicoacustica e prendendo, anche, le sembianze di un’entità dotata di dimensioni, tempo ed energia. Un’entità capace di reggersi in piedi da sola, nonostante l’apparente caos che sembrerebbe esserci all’inizio del tutto sino alla fine, del tutto.

Giungendo, così, a dipingere uno stile sostanzialmente unico al Mondo, fuorviante ma soprattutto destabilizzante delle certezze sulle più comuni e note conoscenze nel campo del metallo oltranzista. Disorientante dell’andamento comune delle cose. Eccelso nel ribaltare, rimescolare, far stridere e cozzare accordi e note in un calderone in cui regna la dissonanza, la disarmonia, l’attrito. Gli Azusa, nondimeno, riescono anche nella complicata impresa di rendere, alla fine, tutto omogeneo, tutto ordinato, tutto intelligibile; ribaltando l’iniziale smarrimento per un proposta musicale illusoria, sfilacciata, senza capo né coda.

Una chiusura del cerchio che, una volta verificatasi, prepara adeguatamente il disorientato ascoltatore a entrare in questo Universo così strano che si chiama “Heavy Yoke”, dandogli la contezza necessaria per godere, a questo punto, degli splendidi intrecci vocali, marcatamente melodici – ma solo per questa volta, della song migliore dell’Opera Prima: ‘Heart of Stone’. Altri episodi appaiono più ostici, in alcuni frangenti anche troppo, inducendo inevitabilmente a pensare alla classica frase tranciante: «Deve piacere. O piace o non piace».

Per molti ma non per tutti.

Daniele “dani66” D’Adamo

 

 

 

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