Recensione: Heimdal

Di Alessandro Rinaldi - 28 Febbraio 2023 - 10:38
Heimdal
Band: Enslaved
Etichetta: Nuclear Blast
Genere: Black 
Anno: 03032023
Nazione:
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92

“Behind layers and layers of ice
Muted and long forgotten
I am leaving this body behind
I am leaving this body to die”

 

Heimdal ha le sue radici nel lontano 1992, anno in cui la band norvegese ha pubblicato la demo Yggdrasil che conteneva un brano che avrebbe dato il titolo, 31 anni dopo, al loro sedicesimo lavoro in studio. E non è un caso che, prima dell’annuncio di Heimdal, gli Enslaved abbiano deciso di ripubblicarlo senza alcun tipo di rivisitazione in studio volto a migliorare la qualità del precedente EP: una scelta in netta antitesi rispetto al trend fatto registrare da alcune band, che mettono mano a capolavori illustri, risuonandoli interamente o semplicemente “aggiornandoli”.

Heimdal, o Heimdallr, nella mitologia norrena è un Dio nato da ben nove madri che ha il compito di sorvegliare il ponte Bifrǫst, ed è, a tutti gli effetti, il guardiano degli Asi e dei Vani ; si tratta di una divinità al quanto complessa, su cui ancora oggi molti studiosi non convergono e hanno elaborato diverse teorie. Su una di queste, si fonda il principio di questo disco: Heimdal, dopo il Ragnarok –  che, ricordiamolo, è la fine del mondo e la rigenerazione di uno nuovo – prenderà il posto di Odino come divinità principale:  le antitesi che emergono, tra padre e figlio, vecchio e nuovo, o più semplicemente tra tradizione e modernità, prendono forma nel contrasto tra le voci di Grutle Kjellson (growl) e Hakon Vinje (clear).

Il black metal nasce come una sorta di rivoluzione tradizionalista, un voler recuperare il background pagano antecedenti all’evangelizzazione, che ha distrutto la quasi totalità del patrimonio culturale scandinavo; ciò ha dato vita ad un movimento fortemente (e talvolta violentemente) anticristiano da una parte; dall’altra cercando di narrare il mondo che fu. Ed è ciò che hanno fatto gli Enslaved, raccontando attraverso i loro album, quel mondo e fatto (ri)scoprire al mondo la bellezza delle cultura pagano-scandinava. Anzi, attraverso la mitologia norrena, hanno percorso il sentiero del misticismo e della filosofia, raccontando l’essere umano, la sua psiche ed i mondi esoterici: da Utgard – che prende il nome da uno dei nove mondi, popolato da Demoni, mostri e giganti, in antitesi con Midgard, la terra degli uomini – le atmosfere si fanno più visionarie, mistiche, a tratti oscure, e Heimdal segue lo stesso sentiero tracciato dal suo predecessore, migliorandone la struttura musicale e l’impatto emotivo.

L’artwork è opera di una sessione fotografica di Roy Bjørge, che ritrae un paesaggio scandinavo con una particolarità: si tratta di una foto perfettamente simmetrica, un effetto specchio perfetto, quasi a voler richiamare la vecchia Legge di Analogia di Ermete Trismegisto, “come in alto, così in basso”.

Il rumore dei remi di un dreki che toccano l’acqua, il suono di Gjallarhorn, il corno del Dio – suonato, per l’occasione,  da Eilif Gundersen dei Wardruna – che preannuncia l’Alba e l’inizio del viaggio: è Behind the mirror: il dualismo tra la voce di Grutle Kjellson e Hakon Vinje è molto interessante, perché muove il pezzo tra black metal e progressive – genere molto apprezzato dalla band. Un attacco di batteria apre Congelia: i riff si fanno più duri e glaciali, intervallati da un passaggio di tastiere che calma momentaneamente le acque e, quando le atmosfere si fanno più solenni, troviamo uno dei momenti più esaltanti, con giochi di voci che sembrano provenire da una tempesta, alimentata da un meraviglioso assolo. Forest dweller segue il sentiero tracciato, ed è perfettamente il linea con quanto ascoltato fino a questo momento: un cantato pulito alternato al growl, con atmosfere trascendenti che ci conducono per mano verso Asgard, al di là del ponte Bifrǫst. L’intro di Kingdom si muove tra il fraseggio della sei corde di Ivar Bjørnson e le tastiere di Hakon Vinje, con il roboante assolo di Arve Isdal che crea una tempesta elettrica che si alterna a momenti più spirituali. In Eternal sea, spicca l’intro di basso cupa, oscura, attorno al quale si sviluppa la struttura del brano; il riff portante è lento ma con un sound decisamente  heavy: c’è rabbia, malinconia,  forza e bellezza, legate da un filo di maestosa grazia. Caravans to the outer world è il brano che ha dato il titolo all’omonimo EP uscito nel  2021, rappresenta l’attitudine norrena al viaggio e alla scoperta: così i vichinghi del passato erano grandi navigatori e avventurieri – basti pensare che ormai, tra gli studiosi, è opinione diffusa che la scoperta dell’America sia avvenuta per mano dei vichinghi, con navi nettamente inferiori alle caravelle. Un viaggio fisico, prima ancora che mistico: tra chitarre roboanti, un drumming avvolgente e la consueta alternanza tra cantato in growl e clean. Chiude la title track, la canzone più oscura di tutto l’album, con un fraseggio di tastiera che viene “elettrizzato” dagli strumenti; e dal growl di Kjellson un pregevole passaggio tra spoken words e tastiere, anticipa la chiusura del pezzo su una base particolarmente pulita, tanto nel cantato quanto nella struttura musicale.

Rispetto ad E ed Utgard, Heimdal rappresenta un ulteriore passo in avanti: è un disco complesso, caratterizzato da una pluralità di suoni al punto che, dopo ogni ascolto,si ha come l’impressione di aver scoperto qualcosa di nuovo, un passaggio che ci era sfuggito, una fraseggio, qualcosa che comunque  lascia il segno. La grande differenza rispetto al passato, è rappresentata dal ruolo chiave di di Hakon Vinje: il suo cantato pulito è più presente che mai, e contribuisce a dare un tocco più norreno, enfatizzandone l’aspetto mistico, anche grazie alla complesse linee vocali che lo caratterizzano; e poi, ci sono le tastiere, che si ritagliano uno spazio più ampio rispetto al passato. Un album, quindi, fortemente influenzato dal krautrock, ovvero un rock progressivo – per il quale la band ha sempre avuto un debole – di matrice teutonica fortemente contaminato dalla musica elettronica. Il tutto si incastra alla perfezione su una base che resta comunque black metal suonata in modo egregio.

E poi c’è l’aspetto emozionale, che in Heimdal è più forte che mai: i norvegesi hanno la capacità di sradicare l’ascoltatore, e di condurlo verso un mondo di rune e divinità pagane, rendendolo partecipe di quell’atmosfera fortemente oscura, mistica e magica del mondo vichingo. Ormai gli Enslaved non suonano più viking metal, ma odinic metal.

Capolavoro.

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