Recensione: Herephemine

Di Daniele D'Adamo - 10 Maggio 2018 - 15:42
Herephemine
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 2018
Nazione:
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75

Via via che passano i giorni, da qualche parte sulla Terra spunta qualcuno che fornisce allo sterminato mondo del metallo – già saturo di classificazioni e/o catalogazioni varie – una definizione stilistica in più. In questo caso, per i The Ever Living, si è tirato su il nome di cinematic post-metal.

Forse sarebbe meglio semplificare, invece che rendere il tutto più complesso e di difficile interpretazione anche ai più appassionati adepti del metal a tutto tondo. Il termine post sta a significare qualcosa che viene dopo, e su questo non ci sono dubbi. Così come cinematic ha il suo riferimento al pianeta del cinema e alle sue ridondanti colonne sonore. È tuttavia la somma di post e metal, che lascia adito a dubbi e tentennamenti. Il metal, si sa, è suddiviso in mille sottogeneri. Quindi, a quale di questi si riferisce l’ormai famigerato post? A parere di chi scrive la risposta è semplice, poiché – fra i sottogeneri citati – l’unico che manifesti un dopo è il black metal. Black metal che, fondendosi con la shoegaze, origina il post-black, entità dai dettami ben distinti e caratteristici.

Quelli che, guarda caso, formano la base stilistica di “Herephemine”, Opera Prima del combo inglese, uscita dopo solo due anni dalla formazione del medesimo (2016). Un dato significativo, poiché il full-length possiede una forte personalità, un tono adulto retaggio di ensemble dotati di più esperienza dei Nostri. I quali, evidentemente, possiedono la giusta dose di talento per trasformare “Herephemine” stesso, e stavolta davvero, in uno dei primi esempi concreti e visibili di post-metal. E ciò poiché, seppur bagnato interamente dal black, l’album possiede una tipologia stilista a sé stante, che può quindi servire da riferimento per gli artisti a venire.

“Herephemine” che, con l’opener-track ‘The Great Defeatist’, dimostra tutto il suo attaccamento al metallo nero. Una song lenta, avvolgente, allucinata a tratti trasognante, che, grazie allo screaming – non esagerato – di Chris Bevan Lee, dà l’impressione di far parte di uno degli ormai famosi album di post-black provenienti dai cugini francesi. Il meraviglioso incipit tratteggiato dal pianoforte regala alla successiva ‘New Mutiny’, dall’anima dissonante, uno spirito profondo, un’emotività spessa e tangibile, intensa. Allora, fa capolino quella sottile malinconia che, anche, rappresenta il preludio allo struggente mal di vivere. L’incedere è pieno, possente, tuttavia mai veloce: le sensazioni provate vanno gustate con calma, senza fretta, matrigna di passaggi troppo superficiali per un lavoro di questo tipo che, al contrario, richiede pazienza, concentrazione e molto tempo da dedicare agli ascolti.

Con la breve ‘Incandescent Array’ il quintetto di Londra fornisce un languido movimento assolutamente melodico, spiazzando un pochino l’idea che sia la disarmonia, e basta, a comandare la scrittura delle song del platter. Pure la successiva ‘Apex Minor’ pare prediligere gli spazi aperti, sconfinati, da percorrere in uno stato di trance per coglierne, amplificati, tutti i vari caratteri distintivi di un sound che, teoricamente, non si pone limiti nell’esplorare le lande desolate dipinte dal pennello del compositore.

Non mancano nemmeno gli intermezzi ambient / new age come ‘Spectral Dissonance’, precognitiva di un futuro distopico dalla natura e dagli svolgimenti completamente artificiali. ‘Foreboding Epiphany’ riporta un po’ la pace e soprattutto l’umanità in un suono a volte troppo discordante, in un’altalena irrazionale fra gli elementi concreti (‘Funereal Waltz’) e quelli aleatori (‘Nocturnal Itch’, ‘Departure Board’). 

“Herephemine” può rappresentare un nuovo modo di concepire il metal, tuttavia tende ad allungare quasi indefinitamente i propri brani, rendendo ardua una lettura d’insieme, a 360°. Il sentiero è stato tracciato, però. Occorrerà solo renderlo ben visibile e sicuro.

Daniele “dani66” D’Adamo

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