Recensione: High the Memory

Di Daniele D'Adamo - 19 Febbraio 2019 - 17:33
High the Memory
Band: Abyssic
Etichetta:
Genere: Doom 
Anno: 2019
Nazione:
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80

Seconda prova in studio per i norvegesi Abyssic che, dopo il riuscitissimo debut-album “A Winter’s Tale” (2016), danno ora alle stampe “High the Memory”.

La prima circostanza che salta subito all’occhio, pardon all’orecchio, è che le coordinate stilistiche non hanno subito sostanziali cambiamenti, i questi ultimi tre anni. Gli Abyssic, come suggerisce il nome, basano la loro musica sullo scatenamento, in chi ascolta, di formidabili visioni della Natura allo stato puro, vergine; senza che abbia, cioè, subito il benché minimo inquinamento da parte della scellerata razza umana. 

Il merito di ciò è da suddividere fra tutti e cinque i componenti ma, come sempre, ha una parte rilevante il fenomenale André Aaslie, eccezionale e prolifico compositore, autore ed esecutore di orchestrazioni potentissime, dalla spina dorsale progettata per sopportare, da sola, l’intero sound di una band capace di produrre, spesso e volentieri, livelli inverosimili di pressione sonora.

‘Adornation’, che apre il full-length, con i suoi otto minuti e passa è la song più breve dell’intero disco (sic!), sopravanzata da immani composizioni della durata di oltre venti minuti come ‘High the Memory’ e ‘Where My Pain Lies’, incommensurabili viaggi fra le altissime vette dipinte dalle mirabili armonie che riempiono sino all’orlo “High the Memory”

Lo stile è doom ma non solo, tant’è che si potrebbe definire cinematic symphonic doom. Un doom quindi atipico, sostanzialmente unico nel panorama musicale internazionale. Fatto, questo, che, da solo, rende indispensabile entrare nel platter per volare fra incalcolabili pinnacoli di roccia pura e incontaminata. 

Sorgono emozioni strane, nell’anima, quasi opposte a quelle che reggono l’impianto sonoro del doom classico. Il ritmo lento, che prende per mano chi ascolta in occasioni dei lunghi passaggi all’interno delle citate suite, non è foriero di funeree sensazioni bensì di meraviglia di fronte alla potenza di una musica che risveglia ciò che di ancestrale vive nell’Uomo, riportandolo indietro nel tempo sino a quando egli era tutt’uno con le cose della Terra. Il growling spaventosamente roco e baritonale di Memnock aiuta a cercare e quindi a trovare, nel DNA dell’Homo sapiens, le antiche memorie di epoche perse nelle nebbie del tempo; camminando, sempre lentamente, a ritroso nei millenni per viaggiare nelle infinite distese formate da laghi e foreste, così come descritte dalle sinfonie che permeano il disco sino all’osso. Sinfonie misteriose e arcane, in certi momenti buie e oscure, tetre, che fanno paura per un ignoto che può trovare al di là dei pendii e che, chissà, potrebbe essere anche mortale. 

Possente anche il suono della chitarra di Elvorn che, assieme all’immane boato del basso di Makhashanah, istituiscono un binomio in grado di miscelarsi alle ondate di musica classica per innalzare un muro di suono immenso, da immaginarsi di colore scuro, sul quale s’intravedono dei graffiti vergati da mani incerte; i quali raccontano con semplicità le epiche storie delle battaglie dei primi uomini contro le avversità di una Natura matrigna, non benevola, come del resto suggerisce il drumming rallentato, in certi momenti quasi fermo, di Tjodalv. Come un battito cardiaco che piano piano va ad arrestarsi, soverchiato dalla magnificenza dell’Universo.

È evidente che “High the Memory” non è un’opera né per tutti, né – soprattutto – per chi consuma la musica senza nemmeno… averla ascoltata. Al contrario, i cinque spettacolari episodi che la compongono abbisognano di un certo lasso di tempo, per essere digeriti, assimilati, compresi. Operazione per nulla difficile, poiché un altro segno caratteristico degli Abyssic è la melodiosità. Non eccessivamente marcata ma più che sufficiente per attirare l’attenzione e aiutare a immergersi dalla straordinaria musicalità di un lavoro dai contorni sterminati.

Da avere, per sognare.

Daniele “dani66” D’Adamo

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