Recensione: House Of Heavy

Di Daniele D'Adamo - 23 Novembre 2009 - 0:00
House Of Heavy
Etichetta:
Genere:
Anno: 2009
Nazione:
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68

1995.
Esce “Helpyourselfish” dei danesi D:A:D. Hard rock metallizzato all’eccesso, troppo moderno per i tempi; ancora indissolubilmente legati ad Aerosmith et similia.

2009.
Esce “House Of Heavy”, primo full length degli svedesi che fanno del titolo dell’album il loro moniker. E forse, adesso, ci siamo.

Questi svedesi, che in realtà sono due polistrumentisti di lungo corso – Henrik Lundberg e Mattias Wellhag – propongono un sound dal taglio decisamente pesante, fondato su delle partiture di chitarra sbilanciate verso l’heavy se non addirittura oltre, se ci si focalizza più sul suono che sugli accordi. Suono compresso, pieno, tagliente, dai riff stoppati come da migliore tradizione thrash.
In effetti sarebbe forse più corretto inquadrarli nell’heavy, come peraltro suggerisce il nome del duo; tuttavia sono preponderanti alcuni aspetti peculiari tipici dell’hard rock classico, come si potrà scoprire ascoltando le quindici canzoni che compongono “House Of Heavy”.
Oltre a tutto questo, ad alimentare la volontà dei due musicisti nel rendere personale ed anche innovativo il genere, c’è il lavoro di Wellhag alle tastiere, le quali supportano il sound in maniera originale rispetto ai canoni classici dell’hard rock, dipingendo in certi momenti variopinti paesaggi futuristici ed onirici viaggi psichedelici.
Ad indurire definitivamente la fisionomia del volto del disco ci pensa la vigorosa e varia sezione ritmica, sostenuta da un rombante basso e da una rutilante batteria.
Pulita, regolare e portata a non strafare la voce dello stesso Wellhag; impostata scolasticamente e dalla foggia un po’ anonima.

Giusto per sottolineare la durezza del materiale di cui è fatto il CD, “Warpaint”, con il suo sinuoso dinamismo, mette a nudo la voglia dei due ragazzi svedesi di coniugare l’erculea muscolatura della struttura della canzone con la melodia delle linee vocali, particolarmente per quanto concerne il chorus.
Tale peculiarità fa da filo conduttore del platter, emergendo spesso e volentieri nelle varie song che coniano il disco argentato. Non da meno, infatti, è “Pure”, dal cuore che batte rock’n’roll. Millimetrica la distanza che separa la tecnica dei vari cori dall’ortodossia hard rock. In “A Hard Man’s Lyric”, Lundberg tira fuori dal cilindro un lungo ed accorato solo di chitarra, degno dei migliori eroi della sei corde.
Il riff portante di “Ride Shotgun” rimanda vagamente a “Detroit Rock City” dei Kiss, ma solo per qualche eco affievolito dal passare degli anni. Una pomposa orchestrazione chiude il pezzo, per il resto privo di sussulti. Organo e coro per “God Vs. God”, brano in costante crescendo condito da tonalità epiche che non fanno mai male.
Il groove caratteristico degli House Of Heavy non mostra cedimenti o tentennamenti nemmeno con “Broken”, giro di boa del disco, anche in questo caso sottolineato dal raffinato gusto di Lundberg.
“Tomorrow May Never Come”, nonostante un vivace intarsio di tastiere, inizia a far intravedere quello che è il difetto principale del platter: la mancanza di una o più canzoni che “sforino”, ovvero in grado di indurre l’ascoltatore a memorizzarle con facilità e piacere.

L’hard rock è un genere ove da sempre viene posto come parametro imprescindibile per la costruzione delle canzoni la facilità di saper comporre armonie semplici e dirette, in grado di entrare in testa “alla prima” e poi di essere memorizzate senza fatica per canticchiarle da soli o urlarle in sede live.
Dopo “Crash And Burn”, finalmente un coro degno di particolare menzione, peraltro nella migliore tradizione dell’hard rock a stelle e strisce, con la breve “My Black Rose”.
Alquanto (troppo?) filtrata la voce in “No Friend Of Mine”, anche se ritornello e cori non sono proprio da buttare. Finalmente con “The Blues” arriva una canzone completa a partire dalle strofe, cadenzate, sino ad arrivare al refrain marcatamente catchy ed ai cori abilmente ruffiani. Un’armonica a bocca suggella il brano, regalandogli in dote quel caratteristico sapore così americano di polvere e whisky.
Gli House Of Heavy sono poi dei grandissimi fan dei Def Leppard, come da loro stessi dichiarato, e lo si sente, dato che “Billy’s Got A Gun” viene resa con grande passione.
Lasciando perdere le anonime “Stay” e “Stolen Heartbeat” (due semi-ballate come ce ne sono a centinaia), la cover dei Leppard chiarisce sinteticamente il limite del duo svedese: il songwriting.
Pur avendo lavorato parecchio sull’album (registrato due anni fa in un home recording prima della stipula del contratto discografico con la Spiritual Beast), le composizioni sono troppo meditate e quindi forzate; senza cioè quella immediatezza che deriva da un solido talento di base.
Non a caso quindi, “Billy’s Got A Gun” si rivela spietatamente come la miglior canzone del lavoro.

A volte c’è il talento creativo, ma non c’è la capacità di metterlo in pratica con un sound moderno ed innovativo; a volte accade il contrario. Ed è il caso degli House Of Heavy.

Peccato, perché dopo tre lustri da “Helpyourselfish” i tempi sono finalmente maturi per un hard rock quasi “thrashizzato” come quello dei Nostri.  
 

 

 

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Tracklist:

01. HoH 1:40
02. Warpaint 5:24
03. Pure 4:27
04. A Hard Man’s Lyric 5:22
05. Ride Shotgun 4:27
06. God Vs. God 5:02
07. Broken 4:44
08. Tomorrow May Never Come 4:56
09. Crash And Burn 5:18
10. My Black Rose 1:40
11. No Friend Of Mine 4:06
12. The Blues 4:37
13. Billy’s Got A Gun (Def Leppard Cover) 5:04
14. Stay 5:55
15. Stolen Heartbeat (Bonus Track – Japanese Version Only) 3:40

Line-up:

Henrik Lundberg – Guitar, Lead Guitar, Bass (except #15) & Background Vocals;
Mattias Wellhag – Lead Vocals, Guitar, Bass (on #15), All Drums & Keyboards Programming.
 

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