Recensione: -II

Di Andrea Poletti - 15 Agosto 2016 - 2:05
II
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2016
Nazione:
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71

Quanti figli illegittimi hanno creato i The Faceless negli ultimi anni, un gruppo così vasto di ragazzi che prendono le sonorità insite dentro quel capolavoro denominato “Autotheism“, per rielaborare il tutto sotto una veste più o meno personale. Certamente non c’è nulla da stupirsi quando una band riesce a distruggere ogni certezza e creare qualcosa di nuovo, forgiando un sottogenere, una linea che andrà progressivamente ad evolversi in mille diramazioni e sfacettature; i Vale of Pnath non sono ne i primi ne gli ultimi che creano qualcosa da una serie di copia e incolla buoni senza svalicare nel “capolavoro”. Non fraintendetemi, il disco che trattiamo oggi è molto valido a livello tecnico, articolato e pieno di validi spunti che delineano una vena creativa non indifferente, ma è tutto già scritto e fatto, ancora di più qui dentro possiamo trovare una tecnica applicata chirurgicamente, ma che ahinoi offre emozioni pari a zero. Purtroppo viene da dire perchè si percepisce minuto dopo minuto come la furia cieca non viene ad esplodere, in favore di un ragionamento conservativo con la razionalizzazione di ogni passaggio. Questi ragazzi sono giovani, volenterosi ed emergono dalla massa senza ombra di dubbio, hanno doti e qualità invidiabili, ma devono crescere ancora e questo secondo album è un ottimo trampolino di lancio verso un roseo futuro. Andiamo con ordine però, non scaldiamo gli animi.  

II, questo il nome scelto per il platter, rispetto al primo album di oramai cinque anni addietro nasce dalle ceneri di una band che ha visto rivoluzionata la line-up; il solo Vance Valenzuela tiene le redini del gruppo, coadiuvato da un team che non destabilizza le carte in tavola ma avanza su un sentiero tracciato, progredenento utleriormente a spada tratta. Alla voce Reece Deeter è la rivoluzione più grande, dato che senza nulla togliere agli altri musicisti, le doti tecniche sono riscontrabili in etrambe le versioni della band con chitarre, basso e batteria sempre ai limiti e una qualità medio-alta invidiabile. Tornando all’album, senza perdere il filo del discorso, dicevamo che è un concentrato di technical death metal aggiustato e decodificato attraverso qualche inserimento acustico, che rende la faccenda accattivante e di complessa gestazione; non è un parto ostico da affrontare, se ne sono viste di peggio negli ultimi anni, ma di sicuro ha necessità di molteplici passaggi per venire fuori con tutto il suo valore. Ma la domanda che ad ogni ascolto mi sono posto è stata: cosa rimane di valido? Cosa differenzia questi ragazzi dalle centinaia che la fuori ho e abbiamo ascoltato? L’unica risposta valida pervenuta in sede cerebrale è stata: l’aggiunta di lievi comparti atmosferico e acustici che spezzano il ritmo dei brani. Tutto il resto è già scritto e riscritto decine di volte, dove la forma canzone viene destrutturata e la gara a chi compie mille giravolte sulle corde della chitarra prende il sopravvento sulla passione per creare vero e proprio.

“Sono stato spiegato” (cit.)

La produzione porta ad un invidiabile qualità di suono che però non riesce a trasmettere tutta la potenza espressa, non vogliatemi male, ma tutta questa voglia di voler a tutti i costi strafare, porta in alcuni passaggi alla compressione del suono con un’appiattimento totale verso quello che il comparto stilistico, distruggendo in parte il lavoro svolto. Certamente molte sono le idee geniali, come l’ingresso a pianoforte su “Klendathu“, lo stacco acustico dentro “The horror in Clay“, l’assolo di basso a 3:50 di “Reaver” o il magistrale stacco a 4:15 di “Unburied” sono la dimostrazione che i nostri hanno tutte le carte per potere andare oltre ciò che hanno appena creato. Questo è il nocciolo della questione. La perplessità che solidifica stile metastasi ascoltando bene “II” prende la forma di un enorme punto interrogativo, che sormonta quella sensazione nell’ascoltare certi passaggi a-là “Between the Buried and Me“, come se questi spunti geniali non siano sviluppati a pieno, rimanendo dietro l’angolo ancora da abbozzare, delineandosi solamente all’orizzionte per un prossimo futuro. Ancora più in sintesi, i Vale of Pnath potrebbero senza sforzi creare del vero e proprio prog death di qualità ma hanno tirato i remi in barca. Alcuni cali di tensione che fanno emergere quel fastidioso “-core” sono da limare (vedasi “Heart of Darkness” e “The Serpent’s Liar“) ma nel complesso possiamo essere discretamente soddisfatti.

I Vale of Pnath a conti fatti offrono un album che merita di essere ascoltato e rielaborato, passo dopo passo, senza preconcetti; all’inizio mi ero solo accorto parzialmente delle loro potenzialità ed è stato solamente riascoltandolo più e più volte e decodificando il tutto che la luce è emersa in lontananza, ma alla lunga ne è valsa la pena. Non sono la classica band techincal contemporanea che vede nella brutalità la sola velocità per fare male, ma come detto ad inzio recensione non aggiungono nulla di nuovo sino a quando non matureranno definitivamente attraverso quell’emotività e quell’emozione che deve prendere il sopravvento sulla ratio. Se questi sono i presupposti abbiamo di fronte una band molto interessante, da tenere sotto osservazione per il prossimo futuro. Bravi ragazzi.

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Anno: 2016
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