Recensione: Implosion Of Pain

Di Luca Recordati - 7 Gennaio 2015 - 20:01
Implosion Of Pain
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2014
Nazione:
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55

Nel mercato Heavy Metal si è detto tutto e il contrario di tutto, per cui, le band, non solo devono fare il confronto con quei pochi giovani gruppi che hanno saputo affermarsi, ma anche con tutti i mostri sacri del passato. Questo è un peso talmente enorme che fa sì che molti gruppi sbaglino approccio, specie in fase compositiva e di arrangiamento, e finiscono per autoconvincersi di aver creato un buon album troppo frettolosamente, quando invece dovrebbero lavorarci sopra del tempo in pù. Il problema nasce soprattutto dal fatto che con i mezzi attuali è fin troppo facile incidere e pubblicare un cd. Ovviamente realizzare un album è un traguardo di tutto rispetto e non può che fare piacere riuscirci, ma non deve essere figlio di un discorso “egoistico”, per autocompiacersi, perché alla lunga poi il rischio è quello di finire direttamente nel dimenticatoio.I Pulvis Et Umbra devono confrontarsi con questo scenario, purtroppo, per alcune mancanze gravi che andrò a elencare più avanti.

Nati nel 2002 dallo scioglimento dei Phonetra, escono nel 2006 e nel 2007 con due Ep, ma per vedere realizzato il primo full length, aspettano addirittura il 2012. Nel 2014 escono con “Implosion Of Pain” scritto e suonato interamente da Damy Mojitodka a causa dell’abbandono di tutti gli altri membri, fuoriusciti addirittura nel 2013, anno d’inizio di scrittura di questo secondo album. 

I Nostri – sarebbe più corretto dire IL Nostro – cadono sulla classica buccia di banana: songwriting abbastanza banale e una produzione scialba che non mostra una vera direzione univoca. Siamo quindi di fronte ad un album death che gioca a volte nel mischiare caratteristiche di death melodico e thrash. Il Growl usato qui è più simile a gruppi storici come Grave o Autopsy, invece che a quello dei Death, tanto per capirsi. Ma al di là del genere proposto, influenze e paragoni che lasciano il tempo che trovano, è soprattutto la fase creativa e produttiva, sulla quale mi soffermerei, a lasciare più di qualche perplessità. Ad un primo ascolto si percepisce l’esistenza di tre filoni produttivi, pur non essendoci una differenza così marcata, se si escludono le tracce strumentali\intro. “Lost Moon” e “Soul Vertigo”, infatti, sono prodotte in modo che tutti gli strumenti, voce compresa, abbiano un volume di mixaggio alto; sembra quasi che sia la voce a farla da padrone. Questa però è una scelta che cozza con le successive, perché inspiegabilmente si cambia rotta; la voce cala di volume quasi nascondendosi dietro agli strumenti, mentre gli assoli sono registrati con un volume più alto per metterli in risalto. Come esempio calzante basta ascoltare “Ordinary Scars”. Infine arriviamo a “Lullabye”, che cambia ancora le carte in tavola, perché il growl è spiccatamente di matrice Six Feet Under. Mai prima d’ora c’era stato un cambio cosi netto, forse le parti vocali di “Soul Vertigo” potevano far presagire un’inversione di rotta così notevole. In tutto questo caos però, un unico punto di forza è la batteria che è registra davvero come si deve.  

Per quanto riguarda il songwriting, siamo su un livello mediocre perché non c’è una vera e propria killer track che rimane fissa in testa. Tutte le tracce si assomigliano cosicché facendo un veloce zapping pre-ascolto, sembra di ascoltare una traccia sola. Addirittura alcuni parti sembrano slegate dal resto del lavoro, come la chitarra acustica finale di “Ordinary Scars”, per non parlare poi di “Lullaby” che, come detto, è completamente diversa dalle altre. Stesso discorso per l’intro “Lift Off” che ha un suono pulsante che fa pensare più a un album di thrash industriale alla Fear Factory che a uno death. “Psicostasia” ha invece il solo beneficio di rilassare l’orecchio, anche se le sezioni arabeggianti e la voce quasi satanica della mini intro, ancora una volta, poco ci azzeccano con il resto dell’album. 

Innanzitutto credo che per rendere al meglio sia necessario avere una band al completo. Anche se ci sono stati molti casi di capolavori suonati da un membro solo (ma bisogna essere di un altro pianeta per essere all’altezza), questo, ahimè, non è il caso dei Pulvis Et Umbra. La prima cosa da rivedere, quindi, è la composizione del gruppo e, successivamente, consiglio a Mojitodka di fare ritorno alla vecchia e buona abitudine di passare tante ore tutti insieme in sale prove, prima di pensare ad un nuovo album.

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