Recensione: Iron Fist

Di Abbadon - 25 Settembre 2003 - 0:00
Iron Fist
Band: Motörhead
Etichetta:
Genere:
Anno: 1982
Nazione:
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80

Siamo nel 1982, e nell’anno forse più prolifico di sempre per quanto riguarda l’Heavy Metal (“The Number of the Beast”, “Battle Hymns”, “The Eagle Has Landed”, “Screaming for Vengeance” solo per citare alcuni titoli tra i più famosi di quell’anno) non potevano dare il loro contributo quelli che più di ogni altri hanno creato una branca tutta loro di Heavy, estremamente ed intimamente legata alle ritmiche del “Rock’n’Roll”. Insomma, non potevano mancare i Motorhead. Ed infatti Lemmy e soci onorano il loro impegno mettendo sul mercato il loro quinto album da studio, il pugno di ferro, “Iron Fist”, ultimo disco che vede alle chitarre il grande Eddie Clarke, che lascerà il posto di chitarrista dei Motorhead (a favore di Brian Robertson) a causa di una lite interna. Il pugno di ferro si presenta con un cover buona ma non eccezionale, diciamo più sul “lugubre” delle passate (un pugno chiuso blu/viola sulle quali nocche risaltano quattro teschi, la sigla “motorhead” si riflette di rosso su di essi). Onestamente c’è da dire che pur avendo messo sul mercato un prodotto davvero ottimo, Iron Fist è album nel complesso leggermente inferiore quanto a sonorità complessiva ed energia sprigionata rispetto ai suoi predecessori. Più che altro, pur avendo 12 song che se prese singolarmente sono nella gran parte di gran qualità, se ascoltate tutte di fila (e soprattutto a più ascolti), tendono ad annoiare e a far abbandonare il prodotto. Forse sarà che le ritmiche in alcune canzoni non sono più quelle roboanti ed esplosive ma sono più placide, manifestando un lieve distacco dal classico Rock’n’Roll e un avvicinamento a un metal classico, senza però esserlo. Questo vuol dire un sound ancora più “ibrido” del solito, che però non ha un punto di forza in nessuno dei due stili combinati che caratterizzano i Motorhead, e che invece in altri dischi faceva il vuoto. Sbaglierò, ma per inciso sarà anche vero che le song dei Motorhead non brillino di chissà quale varietà, ma l’energia sprigionata è talmente grande che nemmeno ce ne si rende conto, e in Iron Fist questo non sempre succede. Analizzato questo difetto (oh può capitare, nessuno è una macchina e anche una macchina può avere dei guasti), passiamo ai pregi, direi abbastanza numerosi. Se è vero che a più ascolti Iron Fist non risulta uno dei migliori lavori del combo britannico, se ascoltato una volta ogni tanto è una vera e propria mazzata. Singolarmente la maggior parte delle song sono di gran livello, e se assimilate a gruppetti di 3-4 per volta risultano essere una goduria. Il basso di Lemmy qui è dominante ed in evidenza come in poche produzioni passate, e chitarra e soprattutto batteria fanno il loro sporco ma efficace lavoro. Per la voce nulla da dire… piaccia o meno è sempre quella rude e birraiola di Mr. Kilminster, quindi non aspettatevi chissà quale ugola, ma rozzeria ed aggressività di ottima fattura.
Un basso rabbioso introduce subito una delle song meglio riuscite, ma paradossalmente tra le meno rappresentative del platter, ovvero la titletrack. I ritmi qui sono veramente alti, il Lemmy bass viaggia a mille seguito dalla batteria martellata a ripetizione e, più avanti, da degli ottimi spunti di chitarra. La cosa più brutta di tutta la song è paradossalmente il refrain, che fa da contraltare all’eccellente solo di Clarke. Rispetto ad Iron Fist sono ben più “elettrici” i suoni partoriti in “Heart of Stone”, questo a causa della guitar che fa in pratica quello che faceva il basso nella titletrack, ovvero portare avanti la baracca. Questa elettricità però va un po’ a discapito dell’incisività, nettamente meno “spaccaorecchie” dell’opener. Anche qui assolo magari non magistrale, ma fossero tutti così…Arriva per terza la mia song preferita dell’album, la positiva “I am the doctor”. Paradossalmente qui il sound è ancora più leggero a livello puramente fonico, ma la canzone ha dei tempi splendidamente congegnati e un riff così ben azzeccato da mandarmi in tilt. Ottimo Fast Eddie a svariare sullo sfondo, molto particolare la voce di Lemmy, che qui è più bassa del solito, tanto da dominare il suonato. I’m the Doctor fa praticamente da sipario di apertura a quella che è una delle migliori combinazioni di canzoni del platter, combinazione che si compone appunto da I’m the Doctor, “Go to Hell” e “Loser”. Basata su un sound molto più grave è quello della sua precedente, “Go to Hell” mantiene comunque un grande fascino. Ottimi e molto coinvolgenti i riffs, che si susseguono a velocità elevata, anche se non roboante, ottima la lunghezza della song (adatta ad esaltare senza annoiare), e discreti il solo e il cantato, che si complementa alla perfezione con l’esecuzione strumentale. Apertura molto “fastosa” anche per Loser, un quasi mid-tempo dalla chitarra elettrica davvero notevole (più in fase di rifinitura che non in quella ritmica, comunque pregevole). Il ritmo è estremamente cadenzato, e questo avvicina ancora di più alla song, song alla quale fa purtroppo seguito un pezzo che seppur discreto, rappresenta per me un passo indietro, ovvero “Sex and Outrage”. Inzio che sa molto di attesa, con Lemmy che dice “You Ready?” per poi lanciarsi in un riffing sfrenato ma un po’ includente a mio avviso. Il brano si basa tutto sullo sui medesimi schemi, ma viene abbellito da un grande lavoro del chitarrista, accompagnato nel suo sfrenato solo dalla puntualissima batteria di Phil Taylor. Null’altro da segnalare, quindi passiamo di corsa a “America”, semi lento dall’ottima chitarra ritmica e dal buon basso, che governano interamente una canzone dedicata più che altro a far riposare le orecchie, senza però lasciare di stucco. Sono presenti infatti dei tratti quasi melodici totalmente inaspettati per i Motorhead, e che sembrano di grande ispirazione per il buon Lemmy quando li intona. Ritorno ad atmosfere più selvagge con la possente “Shut it Down”, tipica canzone motorhediana. Inutile quindi dilungarsi nella descrizione, dico solo che non gradisco il refrain, in quanto la voce del nostro vocalist si discosta un po’ dal suonato, stonando. Pazienza, passiamo a “Speedfreak”, che si apre su uno sporchissimo basso che infonde comunque parecchia elettricità nell’aria e tira a lungo andare tutta la baracca. Buono Eddie nel supportare tale basso, preciso come sempre Taylor, ma canzone che seppur godibile lascia un po’ la senzasione di asciutto in bocca, nella media complessiva incredibilmente equilibrata per quanto riguarda la qualità delle tracce. Molto ben congeniata e dura (anche se non violenta) la decima “(Don’t Let’em) Grind ya Down”, mid tempo dominato ancora una volta dal basso, suonato su scale molto gravi, il che enfatizza ulteriormente il peso della song, una vera scarica di determinazione e grinta. E che dire di “(Don’t Need) Religion” : sulla falsariga del pezzo precedente, anche qui abbiamo un mid tempo (anche se meno rock’n’roll) suonato molto “in basso”, ma in maniera decisamente più sporca. Lemmy è molto convincente e rabbioso nel suo cantato, rabbia che non viene dimostrata con urla o cose del genere, ma che traspare molto chiaramente. Dopo questa coppia di canzoni (le uniche col titolo “tra parentesi”, ma è solo un appunto), songs che mi piace associare tra loro e che rappresentano un gran bel diversivo rispetto alle 9 tracks antecedenti, arriva infine “Bang to Rights”, pezzo velocissimo ed estremamente “pogoso”, che funge da degnissima chiusura ad un disco ogni tanto sopravvalutato, ogni tanto sottovalutato, spesso poco chiaccherato, ma tra i più equilibrati in assoluto dei dischi Motorhead. Forse proprio questo equilibrio lo rende non ascoltabilissimo se preso a dosi massiccie, ma se volete i vostri tre quarti d’ora di sfogo, questo prodotto fa certamente per voi. Del resto con Lemmy è difficile che arrivino errori.

Riccardo “Abbadon” Mezzera

Tracklist :
1) Iron Fist
2) Heart of Stone
3) I’m the Doctor
4) Go to Hell
5) Loser
6) Sex and Outrage
7) America
8) Shut it Down
9) Speedfreak
10) (Don’t Let’em) grind ya down
11) (Don’t Need) Religion
12) Bang to Rights

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