Recensione: Isle of Wrath

Di Vito Ruta - 27 Settembre 2021 - 0:01
Isle of Wrath
75

1975.
Le sempre maggiori tensioni, derivanti dall’essere diventati una macchina per fare soldi, gli scazzi quotidiani con Ian Gillan (Mark II) e, con l’entrata di David Coverdale e Glenn Hughes (Mark III), la lenta ma progressiva alterazione degli equilibri (anche musicali) all’interno della band, allontanano dai Deep Purple il geniale chitarrista Richtie Blackmore. Quest’ultimo andrà per la sua strada fondando i Ritchie Blackmore’s Rainbow con arruolamento massivo dei componenti degli statunitensi Elf capitanati da Ronnie James Dio.
Successivamente la band semplificherà il nome in Rainbow a testimonianza che quanto intrapreso come progetto solista si era trasformato in una band in pianta stabile (salvo scioglimenti e reunion) che ci delizierà sino ai nostri giorni.
2021.
La miscela esplosiva creata dai Rainbow, mediante fusione di hard rock e musica classica, continua ad esercitare un fascino smisurato e la band resta il punto di riferimento di intere generazioni di musicisti. Tant’è che, la Frontiers Music, la quale sembra ci stia prendendo gusto a favorire, se non addirittura ad ideare e pianificare, collaborazioni tra i musicisti che gravitano nella sua orbita, fa scendere in campo i Long Shadow Dawn, progetto in puro Rainbow’s style.
Se si ha a disposizione, da un lato, un valente cantante che ha militato nella band di “Stranger in Us All” (ottavo album in studio che vede il ritorno all’intenso hard rock dei primi lavori dopo le divagazioni AOR dei precedenti tre) e, dall’altro, un altrettanto valido chitarrista, fan di lunga data dei Rainbow. Favorire (o creare) una alleanza tra i due diventa uno scherzo da ragazzi per Serafino Perugino, scafato Presidente della Frontiers.
E’ così ritroviamo l’uno di fianco all’altro il cantante scozzese Doogie White e il chitarrista svedese Emil Norberg (Persuader) che presentano “Isle of Wrath”.

L’album offre un solido hard rock melodico, strettamente legato alle sonorità tradizionali della band ispiratrice, che se interpretato per quello che è – un appassionato omaggio ai Rainbow – risulta convincente e coinvolgente, con un Emil Norberg che mette da parte lo stile power utilizzato nei Persuader per calarsi nei panni dell’insuperabile Blackmore e supportare con grande intensità le passionali interpretazioni di Doogie White.
Poiché non è possibile, nel caso che ci occupa, esimersi da inevitabili paragoni, i brani che compongono il set di “Isle of Wrath” possono essere suddivisi in due gruppi: uno ispirato dalla prima produzione dei Rainbow e l’altro che si rifà alle sonorità della trilogia AOR costituita da “Difficult to Cure”, “Straight Between the Eyes” e “Bent Out of Shape”.
Del sound “Rainbow ante anni 80” fanno parte la movimentate apri pista “Deal With The Preacher”, la successiva energica “On Wings of Angels”, “Hell Has No Fury” – uno dei pezzi più riusciti dell’album introdotto da un riff a dir poco ipnotico – la bluesy “Hallelujah Brother” e il brano di chiusura “We Don’t Shoot Our Wounded”.
Nel sound “Rainbow anni 80” possono farsi rientrare “Raging Silence” che dispensa prechorus e chorus assai melodici, “Star Rider” con un assolo in puro stile Blackmore dell’epoca, “Master of Illusion”, “Steeltown”, “Where Will You Run”.
Della ballad arpeggiata e classicheggiante “Never Wrote a Love Song” si può dire che, pur avendo nell’intensità e nell’assolo “strappamutande” punti in comune con la struggente ed inarrivabile “Catch the Rainbow” dell’omonimo album di esordio “Ritchie Blackmore’s Rainbow”, non coglie completamente nel segno, risultando orfana di un corrispondente fraseggio chitarristico memorabile.

Nonostante l’ombra dei Rainbow si allunghi – come del resto prevedibile date le premesse – per l’intero album, costituendone al tempo stesso punto di forza e limite, il lavoro risulta godibile e stimolante.

 

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