Recensione: It All Began with Loneliness

Di Edoardo Turati - 13 Dicembre 2023 - 11:00
It All Began with Loneliness
Band: The Anchoret
Etichetta: Willowtip Records
Genere: Progressive 
Anno: 2023
Nazione:
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The Anchoret è un nome nuovo nel panorama metal; cercando in rete non si trovano moltissime informazioni, però sappiamo che dietro il moniker si cela una band proveniente dal “caldo” Canada e dalla mente dilatata e allucinata del bassista Eduard Levitsky che ovviamente è anche il creatore di tutta la giostra musicale che stiamo per raccontarvi. Insieme al nostro illustre fondatore ci sono protagonisti non propriamente sconosciuti a molti di voi: la voce ad esempio è affidata a Sylvain Auclair (Heaven’s Cry, Karcius), le tastiere invece sono assegnate a Andy Tillison (The Tangent), mentre la batteria è suonata da James Christopher Knoerl (Aviations, Gargoyl). Del chitarrista Leo Estalles, viceversa, non si ha memoria alcuna. Inoltre, accanto a questa cinquina di musicisti esperti, troviamo a supporto una pletora molto ampia di altri ospiti, vale a dire i flautisti Carina Bruwer e Paulo Oliveira, Artem Koryapinal al clarinetto, il percussionista Reinaldo Ocando, la voce gospel di Nimiwari e infine Juan Ignacio Varela Espinoza al sax soprano (ruolo importantissimo come vedremo più avanti).

Viene da chiedersi quale potrebbe essere la proposta del viaggio che i The Anchoret si accingono ad intraprendere… ma in realtà non è assolutamente tutto così scontato come potrebbe sembrare, e vi consiglio di restare e leggere sino alla fine per conoscere l’endgame musicale dei The Anchoret, perché vi stupirà oltre ogni immaginazione.

Partiamo dal titolo, “It All Began with Loneliness”, ovvero “Tutto cominciò con la solitudine”. È proprio nel 2020, nel distanziamento sociale della pandemia e nel buio dell’umanità separata ed emarginata che Levitsky decide di tramutare in musica il personale desiderio di evasione e allontanamento dal soffocante abbandono universale vissuto nel recesso della propria anima sofferente, quindi niente di meglio di scrivere e comporre perché semplicemente la Musica è connessione.

Ogni traccia dell’album parla di isolamento in tutte le sue forme ineguali, invero però non giunge mai un messaggio di tristezza ma di speranza e di crescita personale del proprio essere uomo. Le storie raccontate sono plasmate intorno a personaggi tormentati che provano a risollevarsi dal loro attuale stato di persona misera e miserabile, restituendo un annuncio di forza e resilienza.

La musica invece è totalizzante, difatti la band suona un’interessante combinazione di progressive metal con dominanti contaminazioni di suoni progressive rock e jazz fusion. Accanto e riff rocciosi si affiancano estesi paesaggi sonori con voci grintose, ma avviluppate in sapori settantiani come il sassofono (Pink Floyd), i flauti (Jethro Tull) e il mellotron (Yes). Si percepiscono anche i più moderni Opeth, su tutti, Pain of Salvation e chiaramente anche influenze del “Teatro dei sogni”. La cosa bella però è che non c’è nulla di derivativo, quello che giunge alle nostre orecchie è un progressive mai banale che attinge sì alla storia più o meno recente, ma avendo una propria anima autosufficiente e distintiva.

La traccia di apertura, “An Office For…“, è per lo più strumentale e ci avvolge in un’atmosfera blues, con la dicotomia di una voce eterea e un sax caldo e fasciante.

La doppietta successiva invece ci spiazza come la finta doppio passo del fenomeno, mandandoci a zampe all’aria. “A Dead Man” è pesantissima con un’esplosione di doppia cassa al limite del black della batteria di Knoerl a dominare i primi minuti del pezzo. Passata la tempesta il suono diventa più melodioso ma, sempre rimanendo roccioso, si inserisce un ottimo solo di chitarra con la voce gospel della Nimiwari ad accompagnarci sino allo scemare. Arriva immediatamente “Until the Sun Illuminates”, naturale prosecuzione del precedente brano che riparte martellante e minacciosa con la voce di Auclair che sfiora il growl donando un’aurea maligna alla composizione. Nel finale ancora il sax si inserisce nel metal estremo in una soluzione cacofonica davvero notevole che ci riporta nel parco di Blackwater.

Someone Listening?” ha un sound molto più rarefatto, pur rimanendo cupa e pesante sino alla metà del brano in cui trasmuta in una song blues-jazz con l’ormai immancabile sax dell’eccelso Espinoza. Indovinate come inizia la seguente “Forsaken”? Ovvio, chitarra rocciosa e sax, neanche a dirlo. L’inizio ci coccola e sollazza illudendoci di effimera tenerezza… e poi arrivano le mazzate sonore, vere e proprie randellate metal con doppia cassa, chitarroni e cori sul finire. Sulla stessa linea prosegue la successiva “Buried” con repentini cambi di registro e sfuriate al limite del black.

I The Anchoret sanno dosare bastone e carota, tanto siamo a noi ad essere sballottati e frullati nel mixer sonoro di schiaffi (tanti) e carezze (poche) che ci vengono generosamente elargiti dai nostri. Eppure, credetemi, ci sono ancora sorprese: “All Turns to Clay” ad esempio è un connubio incredibile di strumenti meravigliosamente dosati e domati con una miscela metal-jazz più unica che rara. Pezzo cupo e arrogante, dove Auclair dà il meglio di sé in fatto di rabbia e controllo della voce. “Unafraid” ci accompagna verso l’uscita e anche in questo caso veniamo rapiti da soluzioni musicali davvero notevoli e inconsuete, tra cui è importante sottolineare il mostruoso e sfacciato duetto settantatiano tra sax e basso. La chiusura è affidata alla (ballad?) “Stay”; voce e pianoforte ci salutano dal ponte del Titanic, per chiudere un viaggio monumentale iniziato inconsapevolmente, anzi no, c’è ancora tempo per un immaginifico assolo di chitarra e mellotron e un paio di sfuriate di batteria, per tornare nuovamente ai saluti con voce e pianoforte.

In definitiva “It All Began With Lonelies” è un viaggio di più di un’ora negli infiniti regni e colori del progressive metal di altissima qualità, divertente nelle sue mille sfaccettature e profondamente soddisfacente perché riesce ad abbracciare e fondere generi e strumenti con estrema e disarmante facilità, senza mai annoiare ma stupire con soluzioni davvero uniche e mai sentite.

Donandogli più ascolti sono sempre più convinto che i The Anchoret hanno appieno raccolto e ampliato l’eredità dei Winds (una meravigliosa band di Oslo con solo tre album all’attivo tra il 2002 e il 2007) che da troppo tempo ormai attendevo inutilmente e che ho assolutamente ritrovato reincarnati in questa meravigliosa band.

Con tutta onestà non so da dove sia uscito Eduard Levitsky ma i suoi The Anchoret  conIt All Began With Lonelies” ci hanno donato senza dubbio il miglior debut album del 2023 e probabilmente anche tra le prime cinque uscite progressive metal dell’anno. Partenza col mega botto di fine anno e la speranza è chiaramente che la qualità realizzativa e compositiva rimanga immutata negli anni a venire.

 

p.s. anche a voi la copertina ricorda la scena finale di “The Truman Show”? In particolare quando Truman dopo la burrascosa navigata usciva dalla porticina in un cielo finto ai confini della cupola per abbandonare il mondo artefatto e soffocante e affrontare la vita reale senza nessuna protezione… forse non è a caso. Tibi meditandum est.

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