Recensione: Living for Death, Destroying the Rest
Quattro anni dopo l’uscita del debut-album Buried in the Front Yard (prima, soltanto un live album e uno split), gli statunitensi Rumpelstiltskin Grinder – il nome non deve trarre in inganno: non si tratta affatto di grindcore – si ripropongono sul mercato con Living for Death, Destroying the Rest, scritto e prodotto dal gruppo stesso, con la co-produzione di Dan O’Hare.
Formatosi nel 2002 a Philadelphia (Pennsylvania), il gruppo statunitense presenta Shawn Riley alla voce e al basso, Ryan Moll e Matt Moore alle chitarre e Patrick Battaglia alla batteria.
In una scena metal intasata di proposte tendenti a innovare e sperimentare, per ironia della sorte spicca il sound dei Rumpelstiltskin Grinder, che sciorinano senza porsi particolari interrogativi il loro ortodosso thrash metal di puro stampo anni ’80. Certamente, rispetto alle proposte di quell’epoca il gruppo ha saputo metter giù anche una buona dose di tecnica e di modernità (basti vedere le parti in blast-beat, ad esempio), ma comunque amalgamate nello stile di base, che è old school al 100% a partire dall’artwork, colorato e ricco di riferimenti simbolici tipici degli Eighties.
Dopo il tradizionale intro ambient, si parte a razzo con la poderosa doppia cassa di Nothing Defeats The Skull, nobilitata da un refrain gradevole ed orecchiabile.
A parere di chi scrive, è decisamente interessante il cantato di Shawn Riley: una prestazione a “petto gonfio”, modulata con le parti musicali, aggressiva ma non troppo, non esageratamente urlata, quindi pulita e comprensibile.
Ma il richiamo alle tradizioni si compie con la seconda canzone, Graveyard Vandalization, un inno al “vero” thrash metal: batteria poderosa, veloce e lineare, linee vocali rabbiose e perfettamente scandite, chitarre urlanti, che macinano riff potenti e che si rincorrono nelle parti soliste, groove generale trascinante e irresistibile.
Procedendo con l’album, si snodano senza tentennamenti e indecisioni le varie tracce, che propongono senza alcuna soluzione di continuità lo speed/thrash del gruppo.
Non mancano tuttavia, nell’apparente semplicità costruttiva delle canzoni, ottimi spunti, come gli assoli di chitarra in Brainwasher C. 1655, i cori trascinanti che ritmano il ritornello di Friends in the Mountain, Ghouls in the Valley, l’introduzione dal sapore vagamente jazzato e i rallentamenti ipnotici, massicci di Spyborg, il riffing ricercato e le punte di hyper-speed di Traitor’s Blood.
Con Beware the Thrash Brigade si prosegue nella ricerca del filone del genere, soprattutto nelle parti di chitarra, che riportano l’ascoltatore indietro nel tempo di almeno vent’anni. Come suggerisce il titolo, la canzone è una sorta di manifesto della “fratellanza thrash” che da tanti anni vive sparsa nel pianeta, legata immutabilmente ai propri usi e costumi.
Decisamente ben riuscita Sewers Of Doom (Dethroning The Tyrant Pt. 1), che mette insieme varie componenti diverse: velocità sostenuta, voce “cattiva”, vivacità compositiva, ripetuti cambi di tempo.
A chiudere il trittico finale, Darkness Never Ending (Dethroning The Tyrant Pt. 2) e Revolution Of Underground Legions (Dethroning The Tyrant Pt. 3), che aggiungono una vena cupa e oscura al tutto; soprattutto con (l’unica) parte cantata in growl dell’intero lavoro, presente nell’ultima canzone, che funge un po’ da suite dell’album, particolarmente varia ed ispirata.
Concludendo, un esempio, questo, di come si possa “far musica” in maniera semplice e diretta, senza orpelli e fronzoli vari, ma anzi mantenendosi entro i confini della tradizione primigenia del genere, producendo quindi un’opera godibile e piacevole da ascoltare in ogni momento.
Daniele D’Adamo
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Tracklist:
01 Nothing Defeats the Skull
02 Graveyard Vandalization
03 Brainwasher C. 1655
04 Friends in the Mountain, Ghouls in the Valley
05 Spyborg
06 Traitor’s Blood
07 Beware the Thrash Brigade
08 Sewers Of Doom (Dethroning The Tyrant Pt. 1)
09 Darkness Never Ending (Dethroning The Tyrant Pt. 2)
10 Revolution Of Underground Legions (Dethroning The Tyrant Pt. 3)