Recensione: March of Progress

Di Riccardo Angelini - 9 Ottobre 2012 - 0:00
March of Progress
Band: Threshold
Etichetta:
Genere:
Anno: 2012
Nazione:
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73

From ashes we rise
To ashes we fall

 

Ai Threshold, nessuno ha mai regalato nulla. In vent’anni di carriera si sono guadagnati i loro fan uno per uno, concerto dopo concerto, album dopo album. Ai tempi di Wounded Land e Psychedelicatessen, tutt’ora fra le vette della loro discografia, non se li filava nessuno. Quanti Hypothetical e quanti Subsurface ci sono voluti perché pubblico e addetti ai lavori imparassero a conoscere e riconoscere il loro valore. Era già il 2007 quando finalmente i nostri si guadagnavano il sudato contratto con una major e dimostravano di meritarlo con l’autorevole Dead Reckoning. Da allora è passato un lustro intero. Non è poco, quando si aspetta il frutto di un talento maturo.

A dispetto del riscaldamento globale, il talento del combo inglese non si è disseccato. Ascoltiamo ‘Return Of The Thought Police’. Il titolo vagamente zappiano cela un mid tempo cangiante, che rieccheggia i fasti dei Threshold anni ’90. Sarà per via del ritorno dopo quindici anni di Damien Wilson, il cui inconfondibile timbro nasale non si udiva su questi spartiti dai tempi del sottovalutato Instinct Extinct? C’è di più: un riff cadenzato, elegante, in cui va accumulandosi una tensione vibrante, che il ritornello, anziché liberare, comprime. Qualità, diceva il maestro René Ferretti.
Ascoltiamo anche ‘Coda’, prima di correre a segnarla nella lista dei migliori brani mai scritti dalla band. L’arrembante sei corde di Groom apre le ostilità, Wilson si traveste da Serj Tankian per il tempo della strofa, l’enfatico bridge porge l’estremo saluto al compianto Andrew ‘Mac’ McDermott (1966-2011, “We’re sorry we’ve lost you / We remember all that you gave / In our hearts you’ll remain”); infine, l’emozione si scioglie su un refrain sobrio, ma accorato e imperativo: remember, remember…

A questo punto, mi piacerebbe poter dire che il ritorno dei ragazzi della contea di Surrey è celebrato da un nuovo capolavoro. Purtroppo non è proprio così.

Ci sono almeno tre ordini di ragioni che inficiano il potenziale di March Of Progress.
Il primo è un morbo, ahimè, comune a tante, troppe produzioni di questi anni, specialmente su certe major. È il virus della tecnologia invasiva, l’elisir nefasto che corrompe il metallo e lo tramuta in plastica. È ormai regola che le uscite Nuclear Blast abbiano, con poche eccezioni, tutte lo stesso suono: tornito, cesellato, lindo, senza una sola vibrazione fuori posto – o se preferite: fighetto, posticcio, assai poco ‘metal’. Che sia questo ciò che le nuove generazioni chiedono? Alle vecchie e alle medie non può che dispiacere la patina di cellophane che soffoca le chitarre di Groom, costrette a dimenarsi in un pantano di suoni collosi – ‘Ashes’, ‘Staring At The Sun’, ‘Colophon’… Gli esempi, e i riff, si sprecano.
A questo problema di forma se ne affianca un secondo, di sostanza. Canzoni brutte, i Threshold non ne hanno mai composte. Ma raramente era capitato di vederli addormentare un potenziale capolavoro come ‘The Hours’, narcotizzato nella seconda metà da divagazioni, non solo strumentali, che fanno salire il minutaggio senza aggiungere alcunché alla cifra artistica. Oppure di toppare clamorosamente un refrain come quello di ‘Liberty Complacency Dependency’, insignificante increspatura di una composizione piatta come il mare d’estate in Riviera. Quando cala l’ispirazione a soffrire è soprattutto Wilson, un gigante del microfono, in forma dirompente, che tuttavia paga come tutti i cantanti dal timbro troppo pulito le melodie spente, quelle che altre voci meno talentuose riescono ad accendere con una strofinata contro le asperità dell’ugola.
Il terzo deficit di March Of Progress emerge davanti alla storia: quella che la band ha scritto dal 1994 a oggi, e che osserva severa con gli occhi dei monumenti Wounded Land, Psychedelicatessen, Hypothetical, Subsurface… Chi i Threshold li ha scoperti l’altro ieri sarà forse soddisfatto e appagato dalle belle melodie e dalla virtù strumentale che pure l’album offre. Ma se un singolo facilone come ‘Ashes’ può piacere a chiunque è perché chiunque avrebbe potuto scriverlo. E i Threshold non sono chiunque.
 
Ma via! Vengano i fan della band, vengano gli entusiasti dell’ultim’ora, e vengano anche gli altri: seppur tardiva e in parte fuori bersaglio, questi ragazzi meritano tutta la gloria che oggi può essere loro tributata.
E voialtri, che in passato avete attinto con avidità da un corno di Cornucopia oscuro ai più, moderate un poco le vostre pretese.
Si va verso la stagione fredda, e s’ha da metter da parte la legna.

A spring of much potential, a summer so eventful
And so we carry on (And so we carry on)
An autumn to sustain us so winter won’t betray us
And so we carry on (And so we carry on)
We fought against all reason to last another season
And so we carry on (And so we carry on)
Dependent on the kindness of those who stand behind us
And so we carry on (And so we carry on)


Riccardo Angelini
 

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Tracklist:

1. Ashes
2. Return Of The Thought Police
3. Staring At The Sun
4. Liberty Complacency Dependency
5. Colophon
6. The Hours
7. That’s Why We Came
8. Don’t Look Down
9. Coda
10. The Rubicon

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