Recensione: Maximum Overload

Di Luca Montini - 15 Settembre 2014 - 0:00
Maximum Overload
Band: Dragonforce
Etichetta:
Genere: Power 
Anno: 2014
Nazione:
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70

“Uh, we got a killstreak coming up if anyone’s interested.”

Sovrapproduzione di contenuti ed informazioni digitali, liquefazione baumaniana dei rapporti ed accelerazione progressiva delle interazioni sociali, informazioni che si fanno “big data” ingestibili anche dai calcolatori elettronici: viviamo davvero in un’epoca di “Maximum Overload” per le nostre menti limitate, come sembrano suggerirci gli inglesi DragonForce sin dalla cover del loro sesto disco.
La soluzione programmatica proposta dalla band sembra la solita, ormai rassicurante sfuriata a millemila bpm, quasi a voler affrontare impavidi lo tsunami nel mare magnum di dati ed informazioni: non a caso il web lo si naviga.
Band già nota agli addetti ai lavori per l’estrema velocità d’esecuzione e sonorità estreme tra il power-speed, gli sgrillettamenti sulla whammy bar e gli effetti stile vecchie console ad 8 (e meno) bit, i DragonForce devono gran parte del loro successo mediatico dalla loro presenza in un certo Guitar Hero, franchise Activision ormai defunto per la precedente generazione videoludica. Eseguire alla massima difficoltà “Through The Fire and Flames” era una prova che solo pochi nerd onanisti dei cinque bottoni colorati sulla chitarra plasticosa sono stati in grado di portare a termine (eccone un esempio). Storicamente i DragonForce sono stati spesso assediati (anche ingiustamente) dalla critica specializzata ed accusati di essere incapaci di riprodurre in sede live le sonorità e la pulizia d’esecuzione a velocità supersonica proposta su disco. Dopo un album poco ispirato come “Ultra Beatdown” (2008) ed un live CD davvero di pessimo gusto e qualità come “Twilight Dementia” (2010)  – e dopo aver cacciato il cantante storico ZP Theart in favore del giovane e talentuoso Marc Hudson, i DragonForce sono usciti con “The Power Within” (2012), disco davvero sopra le righe, forte di un songwriting di nuovo ispirato e meno autocitazionista (chi ha detto “far away”?) e grazie alla radicale riduzione di parti soliste pleonastiche in favore di un sound più accessibile anche ai non-smanettoni della sei corde ed agli esibizionisti della tastiera. La band ormai cresciuta artisticamente e finalmente capace di (auto)controllare le proprie sfuriate mi ha convinto anche in sede live a Milano quello stesso anno con una notevole grinta, positività on stage ed un’inaspettata pulizia esecutiva (report), e grande aspettativa era riposta in quest’ultimo lavoro di Herman Li e soci.

Bisogna ammettere che il disco resta fedele a “The Power Within” sotto numerosi punti di vista: dalle linee melodiche al songwriting, fino al minutaggio medio dei brani di nuovo assestatosi attorno ai 5 minuti. Il suono è cristallino e la produzione, stavolta in mano a Jens Borgen, è decisamente soddisfacente. Bastano pochi ascolti del primo brano “The Game” (video) per essere pervasi dalla consueta scarica di note, con quegli assoli dissonanti e l’atmosfera tetra ma positiva della lotta quotidiana in questo grande gioco che è la società. C’è anche il buon Matt Heafy (Trivium) a dar carica ai backing vocals in growl, presenza sicuramente di livello ma poco sfruttata nei tre brani in cui è coinvolto. Strategia promozionale?
Partenza non proprio brillante con “No More”, anche la successiva “Tomorrow’s Kings” ha un ottimo incipit (del resto pure “Ultra Beatdown” ne aveva a bizzeffe) ma si risolve nel solito minestrone mescolato a velocità supersonica… abbastanza banale, col ritornello che si chiude su note altissime.
Il disco poi decolla all’improvviso e sembra non perdere più quota. “Three Hammers” è un pezzo davvero epico che ricorda da vicino “Cry Thunder”; spezza la monotonia da eccesso di velocità col suo arpeggio e crescendo iniziale. Spiccano poi cori sullo sfondo ed il testo quasi manowariano, sul quale la cavalcata tipicamente power classico è ibridata con lo stile della band di Sam Totman.
Anche “Symphony of the Night” si discosta dagli stilemi classici della band, rifacendosi più allo stile compositivo di Timo Tolkki… il clavicembalo in apertura è talmente veloce da ricordare l’arpeggio di “Through the Fire and Flames”, vero marchio di fabbrica della band.
Ancora tanto divertimento con “The Sun is Dead”, brano al fulmicotone articolato e leggermente più lungo ove fa la sua comparsa anche l’hammond organ. Date una medaglia al bassista Frédéric Leclerq, compositore poliedrico qui impegnato anche in un bell’assolo, che ha scritto gran parte della musica del disco – e si sente. Segue “Defenders”, pezzo più classico che torna sul selciato degli inglesi, usato per lanciare promozionalmente il disco.
Davvero geniale l’intermezzo elettronico rallentato di “Extraction Zone”, in cui la band può dar sfogo agli effettini tanto decantati in passato dal buon Herman Li, come il temutissimo “Pac-Man noise” (video) – segno di come i ragazzi sappiano essere fortemente autoironici. “City of Gold” torna nei ranghi ma con un buon ritornello, complice il sempre ottimo Marc Hudson.
Sorpresona in chiusura: la leggendaria “Ring of Fire” di Johnny Cash accelerata all’inverosimile in una cover audace ma fortunatamente ben riuscita e reinterpretata in stile 100% DragonForce. Il primo ascolto, memore dell’originale folk, è decisamente spiazzante.

Esclusi i numerosi hater aprioristici della band, per tutti i power metallers di larghe vedute “Maximum Overload” costituisce una nuova, piacevole digressione nel pianeta DragonForce. Un album che non rappresenta certo una rivoluzione o una pietra miliare, che pur restando qualche gradino sotto il suo immediato predecessore riesce a sorprendere anche il fan più prevenuto in diverse occasioni col suo songwriting abbastanza variegato. Certo, mancano hit di rilievo e la sensazione di déjà vu ogni tanto si palesa in quell’assolo, nell’abuso di effetti o in quella linea melodica, ma dopo ascolti ripetuti la perplessità sembra svanire in favore dei momenti più felici del disco. Non stiamo certo parlando di un lavoro imprescindibile per il genere, ma di un album onesto che si rivolge ai (Dragon)fan che apprezzeranno immancabilmente. Decisamente da tenere d’occhio l’edizione speciale, con ben cinque bonus tracks di buon livello che alzerebbero di qualche punto il voto della recensione… in pratica un disco nel disco!
Dopo il consueto overclock ai bpm, i DragonForce superano la prova del “Maximum Overload” senza incorrere in bug malevoli o nel temibile blue screen of death. Ora però vogliamo un ulteriore corso sui nuovi Pac-Man noise 2.0!!

“I tried so hard to reach for the stars but I failed you all
Tried to keep standing tall
Never had a real chance at all
But still I’m searching…”

Luca “Montsteen” Montini

… discutine sul Forum, nel topic relativo ai DragonForce!

 

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