Recensione: May the Bridges We Burn Light the Way

Di Daniele D'Adamo - 7 Novembre 2025 - 12:00

E con questo sono dieci. Dieci full-length per gli Omnium Gatherum che, grazie alla loro notevole qualità tecnico/artistica, certificano la band finlandese come una delle migliori espressioni del melodic death metal.

May the Bridges We Burn Light the Way“, questo il titolo del nuovo arrivato, mediante i suoi testi è strutturato come un concept-album libero che narra storie di strada attraverso le esperienze di sognatori, demoni, bugiardi e vagabondi. Tematiche diverse fra loro ma che fungono da colonna vertebrale per il nuovo sound del gruppo nordeuropeo.

Nuovo poiché, ormai, di death metal, nel sangue degli Omnium Gatherum, ce n’è poco. Certo, il growling possente e stentoreo di Jukka Pelkonen, irreprensibile nel suo srotolarsi attraverso i brani, è sempre vivo, presente; adattandosi alla perfezione della musica partorita dai suoi compagni di avventura. Musica che si volge in direzione del progressive metal. Al momento questo passaggio, se proseguirà nella carriera dei Nostri, è in fase di transizione. Tuttavia non sono pochi i richiami a una volontà di evolversi verso qualcosa di diverso (“The Darkest City“).

Il risultato di questa declinazione è davvero apprezzabile, poiché consente al mastermind Markus Vanhala (chitarra e clean vocals), rispetto al passato, di spaziare maggiormente nei territori sia del melodic death metal, sia del progressive metal. E, a proposito di Vanhala, non si può non apprezzare il suo sterminato talento compositivo, oltreché esecutivo. Grazie al quale lo stile degli Omnium Gatherum si può dire unico al Mondo, riconoscibile al volo anche solo dopo pochi secondi di ascolto. Il che è il superamento di un traguardo la cui importanza è indiscutibilmente notevole.

Uno stile ben definito, insomma, che, benché rappresentativo di un incrocio fra i suddetti generi, grazie alla sua forza artistica dipinge un quadro con tratti decisi, dai contorni ben definiti. All’interno dei quali le tinte pastello disegnano i meravigliosi paesaggi della Terra dei Mille Laghi, che rimandano a delicati singulti di tristezza e malinconia. Lo spirito dell’LP non è però rivolto alla sola nostalgia, ma mostra nondimeno risvolti in cui il Sole illumina, seppure debolmente, le note che formano l’LP stesso.

LP realizzato in modo estremante professionale, senza alcun difetto, con una produzione eccellente grazie al legame del combo di Kotka con la Century Media Records. Ogni singolo accordo è percepibile con la massima chiarezza, regalando un suono in cui sono rinvenibili con facilità, oltre a Pelkonen e Vanhala, le operazioni svolte dalle onnipresenti tastiere di Aapo Koivisto (“May the Bridges We Burn Light the Way“), che si possono ben immaginare come un tappeto sul quale si erige il lavoro svolto dai suoi compagni. Mikko Kivistö al basso e Atte Pesonen, in tal senso, danno vita a una sezione ritmica praticamente senza macchia, cattiva quando occorre (“The Last Hero“), più riflessiva in altre occasioni (“Streets of Rage“).

Con una premessa del genere, è lapalissiano dedurre che l’insieme delle canzoni sia anch’esso di elevato spessore compositivo. La loro assimilazione non è immediata ma dopo qualche passaggio svelano appieno la loro bontà a tutto tondo. Non ci sono cali di tensioni, non ci sono buchi, non ci sono riempitivi sì da arrivare ai quaranta minuti di durata complessiva del platter. Il songwriting regala allora song stupende come “Barricades“, a parere di scrive la migliore del lotto, dotata di un mood profondo, avvolgente e struggente, ma soprattutto di un ritornello che non si può e non si deve dimenticare; assieme a un assolo di chitarra super veloce e devastante. Ovviamente, per quanto detto, perfino le altre tracce presentano al loro interno istanti memorabili, dove impera la melodia (“Road Closed Ahead“). Melodia che non è stata certo messa da parte e che anzi impregna sino all’osso l’opera.

May the Bridges We Burn Light the Way” è disco che non deve assolutamente finire nel dimenticatoio. Al contrario, può essere di gradimento anche a chi non bazzica il metal estremo che, nel caso in esame, non è poi così estremo. Gli Omnium Gatherum, peraltro, hanno raggiunto la piena maturità nell’eleganza del componimento e meritano anch’essi un posto di rilievo nell’affollatissimo mercato discografico.

Daniele “dani66” D’Adamo

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