Recensione: Mountain Fever

Di Roberto Gelmi - 14 Giugno 2021 - 12:26

Storia sui generis quella degli israeliani Subetarrenan Masquerade: band con un numero limitato di album all’attivo è, però, nota ai conoscitori del prog. metal con contaminazioni avantgarde e basta recitare questo moniker per ottenere approvazioni. Dopo una prima fase di rodaggio con tanti special guest e un’identità ancora da definire (Suspended Animation Dreams è il disco di debutto nel 2005), il fondatore Tomer Pink supera lo iato di inattività della band rilanciando il progetto nel 2013 con l’EP Home.  Due anni dopo vede la luce The Great Bazar, un buon disco, con una line up rinnovata –  al microfono Kjetil Nordhus (Tristania, Green Carnation) per le parti in clean e Matan Shmuely (Orphaned land) alla batteria – e un sound finalmente all’altezza delle aspettative.

Con i Subterranean Masquerade siamo di fronte a sonorità ibride: chitarre metal accostate a elementi jazz, rock psichedelico, cenni avantgarde e una seconda voce death metal, insomma c’è di che gioire in un simile potpourri. Anche in Vagabond (2017) la qualità della musica proposta resta notevole, l’EP The Pros & Cons of Social Isolation può considerarsi invece un’uscita secondaria per riempire il vuoto dovuto alla pandemia ancora in corso… Quest’anno è la volta di Mountain Fever, la prova del nove per capire se la band è ancora sul pezzo o ha perso smalto. Diciamolo subito, i Subterranean Masquerade hanno realizzato un discreto prodotto musicale, rilanciando il loro marchio inconfondibile e che vuole guadagnare ancor più visibilità nella nicchia della musica per intenditori. L’artwork è un manifesto programmatico nella sua grafica da horror vacui chagalliano: ascoltando il platter preparatevi dunque a passaggi vicini ai Diablo Swing Orchestra, ai primi Pain of Salvation, ma anche Dream Theater e, perché no?, Therion e Amorphis.

Veniamo allora alla tracklist. L’opener “Snake Charmer” come recita il titolo evocativo ipnotizza l’ascoltatore già all’avvio. Dopo i primi secondi arabeggianti, sembra di ascoltare gli Amorphis più epici, ma prima del refrain subentrano altre influenze musicali e si vira sul prog. canonico con un immancabile assolo di chitarra, mentre il finale del pezzo è lineare e non pecca in ridondanza. Come inizio niente di veramente innovativo ma è musica ben arrangiata e con la giusta attitudine. Buon pathos anche in “Diaspora My Love”, breve ballad dalle curiose seconde voci ammiccanti accostate a grunts cattivi nei secondi conclusivi. La title-track è una goduria all’avvio, sembra di essere catapultati in un film di Emir Kusturica! Ritorna il flavour alla Amorphis ma anche rimandi ai Diablo Swing Orchestra e i grunts non mancano; il ritornello è catchy al punto giusto, gli assoli potrebbero figurare in un disco degli Ayreon. A metà brano compare un cambio di tempo inaspettato con percussioni tribali accostati a sintetizzatori e strumenti a fiato; non manca nemmeno una parentesi klezmer, tributo alla terra d’Israele. In definitiva “Mountain Fever” è uno degli highlight del disco, da riascoltare più e più volte.

Ottimo prog. lisergico nei primi minuti di “Inward”, song mutevole e dalle tante sfumature nascoste, richiede un certo impegno per essere metabolizzata a dovere ma nel complesso dà spessore aggiuntivo al disco dei Subterranean Masquerade che qui si inoltrano in meandri sonori non accessibili a tutti. Tiratissima la prima strofa di “Somewhere I Sadly Belong”, si veleggia su ritmi indiavolati (e le linee vocali sembrano schizzate) ma in pochi secondi parte un ritornello pseudo-soul con voce femminile che torna più volte a spezzare il sound metal del pezzo. Molto bella la parte strumentale a seguire, vicina ai Symphony X, ma è l’idea melodica che innerva il brano ha convincere a ogni riproposizione del refrain. Un esempio davvero riuscito di accostamento azzardato di generi agli antipodi.

Anche l’ultima mezzora del disco ha alcuni buoni momenti. Si va dagli estremi simil-Therion di “The Stillnox Oratory” (prima parte in pianissimo, finale urlato e struggente) e dalla poco riuscita “Ascend”, passando dallo slap di “Ya Shema Evyonecha” (pezzo prog. metal diretto e potente con una parte folkish niente male) per arrivare al brano più lungo in scaletta. “For the Leader, with Strings Music” nei suoi otto minuti è un calderone di sonorità disparate. All’avvio ricorda gli Opeth più ferali, poi diventa una ballad per poi risorgere nel finale con parti di doppia cassa tutte da godersi cuffie alla mano.

Il sipario cala con “Mångata” (parola che in svedese significa qualcosa come “la via del riflesso della luna sull’acqua”), un lento avvolgente e sinuoso che non rinuncia negli ultimi istanti a riproporre il sound duro dei nostri, che si avvicinano ai Pain of Salvation per quanto riguarda le linee vocali caricate.

Mountain Fever è sicuramente un album con diversi pregi, ma non un capolavoro nel complesso. La band si muove con disinvoltura tra Oriente e Occidente, tra rock e metal, clean e growl, ma deve ancora affinare il tiro e snellire la tracklist da qualche riempitivo. Ciò detto consigliamo l’ascolto del platter, molto probabilmente alcuni pezzi finiranno nelle vostre playlist e forse il disco figurerà in alcune classifiche di settore tra le migliori uscite dell’anno.

 

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