Recensione: My Dark Symphony

Di Roberto Gelmi - 2 Dicembre 2018 - 12:29
My Dark Symphony [EP]
Band: Conception
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2018
Nazione:
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85

Dopo la breve e poco significativa reunion live del 2005, torna una delle band che ha lasciato un vuoto nel cuore degli appassionati del prog. metal aurorale. L’EP che ci accingiamo a recensire è una delle uscite più preziose di quest’anno, senza timori di smentita. La rinascita come araba fenice dei Conception, una delle band più misconosciute del progressive novantiano, ha dell’incredibile. Grazie a una campagna di crowdfunding andata a buon fine e al singer Roy Khan, che rompe il proprio digiuno creativo e torna a stringere il sodalizio con il mago Tore Østby, possiamo ascoltare una manciata di brani che vanno in controtendenza con le nuove vie del metallo sperimentale e ribadiscono l’originalità del gruppo norvegese, dalla cui costola sono nati gli indimenticati Ark. L’artwork di Spiros Antoniou è surreale e oscuro, come già quello del singolo apripista Re:Conception, e non ha niente da invidiare alle copertine dei Leprous. Ci aspettiamo, dunque, delle composizioni ricercate e con un quid di oscuro languore.

Dopo l’intro del nuovo concepimento, “Grand Again” è un opener sontuoso che mette subito in chiaro che i Conception sono tornati mossi da seri intenti di rivincita. I ritmi intricati e la voce filtrata di Khan a un primo ascolto possono intimorire, ma basta arrivare al refrain per vedere dissolti i propri dubbi: sorretto dalle ritmiche insistite di Østby, il cantante norvegese regala un ritornello celestiale con acuti che solo lui sa interpretare in modo divino. La seconda metà del pezzo, inoltre, è un momento prog. che ricorda le atmosfere sospese e ricercate degli Ark (nello specifico “Missing You”, brano conclusivo di Burn the sun). Per chi come il sottoscritto adora gli assoli insinuanti di Tore, non c’è che applaudire. Basterebbe “Grand Again” per dare senso alla reunion dei Conception, ma l’EP si compone di altri ottimi venti minuti. Le strofe di “Into the Wild” hanno un che di magnetico e ipnotico: l’ugola di Khan riesce a irretire la mente dell’ascoltatore, laddove la 6-corde ricama un guitarwork pregevolissimo senza risultare ipertecnico o scontato, dosando giuste asprezze e un’inesausta ricerca melodica. Bellissima la coda del brano, tirata e grintosa. Va detto che la chimica della band è rimasta quella dei Nineties: i non summenzionati Ingar Amlien e Arve Heimdal compongono una sezione ritmica micidiale; le parti di batteria, soprattutto, sono incisive e richiamano il migliore Mark Zonder. Stessa formula vincente in “Quite Alright”, altra traccia intessuta dello stile inconfondibile dei Conception; pur risultando il brano meno riuscito dell’EP è un piacere ascoltare ogni nota cesellata da Khan. “The Moment” è la composizione più ariosa del disco, con parti di pianoforte e la presenza di seconde voci nel refrain. Curiosamente al suo interno è contenuto l’assolo più bizzarro del platter, con tinte orientaleggianti e un inedito Tore Østby al tremolo picking che per alcuni secondi sembra vestire i panni di Steve Vai. Pura classe. La title-track chiude il cerchio su ritmi nostalgici e ricchi di pathos, con alcuni picchi dark e inserti di voce femminile.

Con la stessa line-up di vent’anni fa i Conception riprendono il discorso dove l’avevano lasciato con Flow (il disco che meglio ha resistito alla prova del tempo a detta di Khan). Non fatevi sfuggire questo dischetto, forse preludio per un nuovo full-length che rilancerebbe la band scandinava nell’olimpo del prog. che conta.

Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)

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