Recensione: Native Sons

Di Eric Nicodemo - 19 Novembre 2015 - 8:00
Native Sons (Reissue)
Band: Strangeways
Etichetta:
Genere: AOR 
Anno: 2012
Nazione:
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92

Esistono opere di artisti che hanno dimostrato talento e capacità eguali, se non superiori, ai soliti nomi tanto blasonati.

Solo la mancanza di marketing e l’indifferenza del pubblico (che preferì contendenti più celebrati) può giustificare l’insuccesso di “Native Sons” (1987), secondo album degli Strangeways, fondati dagli scozzesi Ian Stewart, David Stewart e Jim Drummond. Per l’occasione, risultò cruciale l’entrata nel combo di Terry Brock, singer originario di Atlanta, il quale portò a completa maturazione la proposta grazie alle fantastiche doti canore. Doti che avevano consentito a Brock di lavorare già come backing vocalist per complessi quali Kansas (in “Drastic Measures”), Michael Bolton (“Everybody’s Crazy”, “Soul Provider”) e FM (“Tough It Out”).

Tornando a “Native Sons”, le registrazioni dell’album ebbero luogo ai Powerplay Studios in Svizzera, sotto la supervisione del produttore John Punter (già attivo con nomi del calibro di Procol Harum, Nazareth e Slade).

Il risultato delle registrazioni è, tuttora, uno dei migliori esponenti del genere. Quello che rende veramente unico “Native Sons”, è, però, la capacità di definire uno stile personale, che contiene tutte le caratteristiche distintive del melodic rock, nella sua accezione più profonda. E l’essenza dell’AOR risiede nella scrittura emotiva, guidata dal gusto negli arrangiamenti e dal totale controllo sugli strumenti e sulle tecnologie (acronimo quello AOR in verità disprezzato da Ian Stewart, che lo definiva come “Any Old Rubbish”).

Insomma, grazia e potenza, tecnica ed istinto che gli Strangeways fanno convivere con estrema naturalezza in “Dance With Somebody”: il battito ritmico trepidante e nervoso, una chitarra sfrigolante d’energia e su tutto, come un sole accecante, la voce incredibile di Terry Brock, intrisa di passione febbrile. Il refrain può riassumere il concetto di quel rock che sa sedurti fin dal primo incontro: cori vitali e synts che si agitano come dita frenetiche, cercando di cogliere i propri desideri.

Allo stesso modo di una formula magica, “Only A Fool” aggiunge delicatezza e atmosfera all’incantesimo lanciato dagli Strangeways. Gli assoli si librano e la voce traccia un’armonia soffusa ma intensa, impossibile da infrangere, così limpida da non poter essere inquinata. “Only A Fool” è la sintesi di tutto quello che la musica melodica può donare: il sentimento, la riflessione e la gioia di un istante che durerà all’infinito.

Le tastiere ci cullano materializzando il sogno di “So Far Away” tutt’attorno a noi. E quando il singer dispiega la propria voce, sembra di spiccare il volo in un cielo profondo e immenso. Non si può sempre descrivere quello che proviamo ma sembra proprio che Brock riesca ad estrarre le nostre emozioni, con la sua voce pura. Niente ci trattiene, sembra di poter far tutto sulle note di Ian Stewart, che tramuta il rock in un flusso continuo di sensazioni.

Where Do We Go From Here?” libera, invece, la parte più carica del nostro spirito: pulsazioni a galoppo sulla chitarra, trainate dal connubio impossibile di Brock, classe e potenza sempre con quel tocco gentile ed accogliente, mai nauseante e mieloso. Quando, poi, senti la fiamma della sei corde crescere ed ardere, comprendi che ogni tonalità è priva di sbavature, come i lineamenti di una statua (la forma canzone) senza difetti.

Cala la notte e nel buio di “Goodnight L.A.” si sente solo il battito del basso e la brezza del main vox. La chitarra squarcia il buio e il coro si erge dal silenzio, in un grido struggente, trasportato dal vento nell’oscurità. Non è un sonno tetro e sofferto ma il momento in cui le difficoltà della vita si fermano e noi riprendiamo respiro dai nostri problemi e le speranze tornano a vivere. La voce di Terry, così roca e dolce, sembra sanare tutte le nostre delusioni, scivolando con grazia attraverso vibrati, tastiere e ritmica.

Dopo la notte di “Goodnight L.A.”, si profilano le vie vuote di “Empty Streets”. La tranquillità è scossa dal riff muscoloso della sei corde. Presto le tastiere leniscono la tensione ma non l’intensità emotiva del coro, bruciante nel suo avvertimento e sublime nelle parole del singer, che combaciano con l’assolo. Senza smentirsi, la chitarra si espande in chiusura e diventa da fiamma a fuoco di vibrati.

Stand Up And Shout” spara un groove intimidatorio che esplode nel grido accorato della sei corde. Ed è proprio il groove che ancora una volta fa da padrone alle ritmiche e ai cori degli Strangeways. Mai doma la sei corde, si rialza e senza risparmiarsi fa vibrare note ed emozioni all’unisono.

Inutile ribadire la capacità di elargire a piene mani atmosfere e brividi anche nelle composizioni “minori” come “Shake The Seven”, merito di suoni scintillanti, palpitanti e della voce ipnotica di Brock, mai troppo osannata. Se poi si aggiunge la magia del piano, l’incantesimo è completo.

Perché ormai è certo che “Native Sons” sia un sortilegio così potente ed ammaliante da resistere fino ai giorni nostri, ancora vivo nell’impatto enfatico di “Never Going To Lose It”. Il drumming scuote l’aria mentre le tastiere lambiscono le note. Terry apre davanti ai nostri occhi immensità sconosciute, dove la chitarra ci accompagna rapida, tenendo per mano la batteria di Drummond, potente e marziale nello scandire i nostri sussulti.

In questo album sembra di veder scorrere i momenti tristi e felici della propria vita attraverso gli occhi di “Face To Face”. Terry traduce la musica nel linguaggio del cuore, sempre accompagnato dalla fedele chitarra, fascinosa amante in perfetta sintonia con il suo compagno.

“Native Sons” è un album nato dalla sfera passionale e per questo è difficile, quasi impossibile, catturare e rinchiudere in parole ciò che comunica. E’ un album che dimostra anche come la bella musica deve essere cercata ed amata perché può celarsi proprio lontano dai riflettori e dai dischi d’oro e di platino.

Non a caso, i troppi paragoni con i Journey giovarono poco all’album e alla band, paragoni spesso abusati che distolgono l’attenzione e fanno dimenticare album incredibili. Come poteva, dunque, emergere un “Native Sons”, se è sufficiente sempre lo stesso “menu”? Domanda retorica che dimostra come la musica può essere fatta da consuetudini e stereotipi che non vogliamo abbandonare, certezze a cui spesso non rinunciamo.

Sta a noi liberarci da queste catene e capire che c’è molto di più da scoprire, ascoltare ed amare.

Eric Nicodemo

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