Recensione: Nechacha

Di Stefano Usardi - 18 Ottobre 2025 - 10:03
Nechacha
Band: Maahes
Etichetta: Massacre Records
Genere: Black 
Anno: 2025
Nazione:
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73

Cosa succederebbe se fondessimo i primi Dimmu Borgir con i Nile? Probabilmente è ciò che si sono chiesti anche i bavaresi Maahes, arrivati con questo “Nechacha” al secondo album dopo cinque anni dal debutto “Resurrection”. La loro musica, infatti, parte da un black sinfonico riconducibile alle atmosfere create dal gruppo di Shagrat – ascoltate “Keeper of Secrets” e ditemi se non sembra un tributo a “The Night Masquerade” – e lo addensa con elementi più vicini al death, unitamente a un immaginario che pesca a piene mani dalla mitologia e dalla storia dell’antico Egitto. Ciò che ne risulta è un lavoro aggressivo, cupo ma al tempo stesso abbastanza accattivante, con le idee chiare su ciò che vuole e un amalgama sonoro ben preciso per veicolarle: le sferzate del black si fanno minacciose grazie ai repentini ispessimenti, mantenendo un respiro cinematografico e, di quando in quando, addirittura poetico. La compattezza del death viene sfruttata per dare spessore alle composizioni e ammantarle di un piglio cupo e claustrofobico, mentre la componente sinfonica ne impenna la maestà con drappi solenni ed enfatici, recuperando in alcune occasioni un retrogusto mistico e rituale. A chiudere il cerchio ci pensano gli improvvisi svolazzi romantici che sfruttano gli interstizi tra una sfuriata e l’altra per creare sporadiche isole di pace col loro seducente chioccolio. Le atmosfere da antico Egitto, per la verità, non emergono quanto avrei sperato, comparendo sotto forma di melodie dal taglio riarso e desertico nelle partiture dei nostri ma tendendo a sparire troppo spesso nelle retrovie.

Nonostante questo mix di elementi, la radice sui cui è costituito “Nechacha” rimane il black sinfonico, come dimostra l’iniziale “Magic Slave”. Un riff veloce, insistente e dal taglio etnico si alterna a passaggi più compatti e scanditi per dare inizio alle ostilità. La pausa arriva solo con la breve intromissione di piano che apre la seconda metà del pezzo, subito seguita da una nuova raffica più cupa ed un nuovo intermezzo pianistico più soffuso, che sfuma infine nel riff iniziale. “The Resurrection” abbassa i ritmi per avanzare su un terreno più scandito, seppur vivacizzato da improvvise sfuriate. L’incombenza minacciosa del pezzo viene interrotta da un segmento dai toni dimessi e malevoli che guadagna corpo affidandosi a melodie sinuose, sorrette da chitarre spesse e una sezione ritmica in continua evoluzione prima di chiudersi in se stessi e tornare anche qui, dopo un improvviso ritorno sull’attenti, al riff sentito in apertura. Le atmosfere si fanno cupe e maestose con “Lord of the Underworld”, colorandosi poi di un’urgenza nervosa ma che non perde nulla della sua carica cinematografica. La stessa che si ammanta nell’ultimo terzo di elementi trionfali, sempre marcati stretti dall’incombenza tesa del pezzo. “Morbid Love” alza i giri per dispensare martellate sotto l’occhio vigile di tastiere suadenti: gli sporadici rallentamenti caricano il brano di una certa magniloquenza, profumata dagli innesti esotici che affiorano per poi fondersi col ritorno delle rasoiate. Anche qui il breve ingresso del piano colora il tutto con toni romantici, decadenti, che persistono anche nei momenti più taglienti a ridosso del finale. “Cult of the Sun” inserisce nell’amalgama una certa quadratura ritmica, mescolando elementi più scanditi con le solite raffiche ed un taglio mistico, rituale, acuito dal finale corale, mentre “The Crown and the Sceptre” gioca con un languore sonoro sinuoso e solenne. Il pezzo avanza lentamente su un tappeto ritmico quasi tribale, aggrappandosi al cantato ruvido di Horus e caricandosi di melodie ora carezzevoli ed ora più energiche, fino all’impennata enfatica che pian piano sfuma nuovamente nella melodia iniziale. Si resta nei confini del decadentismo musicale con la già citata “Keeper of Secrets”, ballata oscura che serpeggia tra improvvise sfuriate, momenti malinconici e ripartenze pulsanti per poi chiudersi con la romantica melodia di piano. Il compito di chiudere ufficialmente l’album spetta ad “Obsidian (outro)”, un pezzo sognante dominato da chitarra acustica e cupi ringhi in cui fanno capolino voci narranti e timide orchestrazioni che sfumano nel silenzio, stemperando un po’ troppo il tono malevolo dell’album in vista delle tracce bonus.

Il ritmo primitivo ed esotico di “Patron Saint of the Pharaohs” si trasforma rapidamente in una marcia solenne, incombente, in cui le atmosfere desertiche da antico Egitto esplodono finalmente con una pienezza corroborante. Il pezzo guadagna vigore e ferocia, mantenendo però i ritmi scanditi e il profumo di antiche civiltà sempre ben percepibile, e cede il passo a “Medusa”, già presente sull’EP di debutto dei bavaresi. Dopo un’intro solenne e dai profumi mistici il pezzo parte a spron battuto, mettendo in mostra forti connotati di death melodico; l’intermezzo centrale instilla nella traccia un profumo cerimoniale, cambiandone l’incedere in favore di un approccio più sinistro che si carica, nel finale, di una nuova energia. L’ultimo ruggito dei tedeschi è costituito dalla riedizione del singolo dell’anno scorso, “Nephthys’ Tears”: l’incedere iniziale, dimesso e malinconico, si carica di enfasi mescolando rabbia abrasiva e melodie maestose, costruendo un climax che poi sfuma nell’arpeggio che aveva aperto il brano e ponendo il sigillo su un lavoro meritevole di attenzione.

Nechacha” conferma le doti dei bavaresi pur pagando ancora un pesante fio ai propri numi tutelari. Ad essere sincero avrei preferito una maggiore presenza delle atmosfere esotiche ed antiche di cui i nostri vorrebbero farsi portatori, ma al di là di questo mio appunto personalissimo pare comunque che il terzetto abbia capito cosa vuol fare e ci si dedichi in modo diligente e concentrato.

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