Recensione: Old Mother Hell

Di Stefano Usardi - 22 Marzo 2018 - 7:00
Old Mother Hell
Etichetta:
Genere: Heavy 
Anno: 2018
Nazione:
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75

Recentemente messi sotto contratto dalla nostrana Cruz del Sur, gli Old Mother Hell si sono rivelati proprio una bella scoperta: il loro omonimo esordio autoprodotto trasuda passione e fierezza da ogni poro, andando a ripescare il mood cadenzato e solenne dell’heavy metal vecchia scuola, con sporadiche incursioni nei territori dell’epic livido e lapidario, senza per questo scadere nell’eccesso di pathos che fin troppo spesso sconfina nel caricaturale. Il nostro possente terzetto nasce nel 2015 dalle ceneri della thrash band teutonica Hatchery e in un paio di anni pubblica questa colata di metallo rovente, in cui ogni strumento si ritaglia pazientemente il suo spazio creando un’architettura sonora di tutto rispetto – impreziosita anche da una produzione azzeccatissima e molto old school – che rende il risultato finale possente, rotondo, stratificato, in cui la pesantezza del doom si sposa alla perfezione con le improvvise e fulminanti accelerazioni dell’heavy più incontaminato e carico di eroico trasporto, rivelando di tanto in tanto insospettabili derive legate all’hard rock e schegge impazzite che profumano di seventies. Sei tracce per una mezz’oretta abbondante in cui il nostro teutonico terzetto mostra senza colpo ferire ciò di cui è capace, destreggiandosi senza apparenti problemi con una materia che dimostra di conoscere piuttosto bene (una canzone come “Mountain” non si improvvisa), mantenendosi sempre su tempi perlopiù scanditi, sferzati da chitarre roventi e sovrastati dal vocione declamatorio di Bernd, una specie di mostruoso incrocio tra Glenn Danzig e Blackie Lawless.

Si inizia con l’arpeggio minaccioso e solenne di “Another War”, che in breve prende corpo e si sviluppa trasmettendo la giusta dose di sofferenza, che esplode poi in una brusca accelerazione dal sapore heavy rock; il brano si mantiene su queste coordinate, alternando sofferta pesantezza e rapidi fendenti di chitarra, sudati e sdegnosi, coronati da un assolo breve ma carico di passione poco prima del finale. Niente male, ma è con la successiva e già citata “Mountain” che i nostri tirano la bordata. L’incipit è massiccio, inesorabile, carico di quell’aura di minaccia che dai Black Sabbath in poi ha reso grande più di un gruppo. Ad essere sincero, a me sarebbe bastato anche solo questo plumbeo martellio, ma ecco che al minuto 2:27 la traccia accelera improvvisamente, trasformandosi in una cavalcata heavy che, nonostante una struttura semplice semplice, piazza la zampata vincente grazie a melodie azzeccatissime e un piglio tanto eroico quanto arrogante. Un’atmosfera altrettanto cafona si respira nella movimentata “Narcothic Overthrow”, il cui incedere adrenalinico è benedetto da un ritornello decisamente baldanzoso, capace di fare breccia fin dal primo ascolto e futuro cavallo di battaglia durante i live shows del combo. L’atmosfera minacciosa dell’opener sembra tornare a far capolino con “Howling Wolves”, in cui a un incipit maligno, solenne e scandito fa seguito un sviluppo più movimentato, dal profumo a tratti quasi maideniano. La canzone saltella per tutta la sua durata tra questi due andamenti, dispensando fomento battagliero e aggressività marziale e austera, a loro volta acuiti dall’incursione strumentale che si appropria della seconda parte del brano. Il suono delle campane e una melodia malinconica che profuma l’aria di ballatona aprono “Kneel to No God”: in realtà, alla traccia bastano pochi secondi per abbandonare quel sentore di mestizia decadente per svilupparsi in un mid tempo molto ritmato in cui si percepiscono insospettate influenze blues. Nonostante la durata di sei minuti e mezzo, la canzone scorre piuttosto bene, mantenendo il suo incedere desertico, disperato, anthemico e riarso. E si arriva così alla conclusiva title track, brano cangiante in cui a un inizio che sembra spingere sul trionfalismo più massiccio fa seguito una seconda partenza più rock oriented, per uno sviluppo in continuo divenire in cui si susseguono rallentamenti carichi di un groove minaccioso, arpeggi lenti e meditativi, spiragli di solennità disperata e anche un’incursione solista che profuma vagamente di anni settanta. Il finale torna alla pesantezza dell’epic più cupo per chiudere l’album con piglio fiero e congedare i fan con la giusta dose di solennità.

Alla fine dei conti “Old Mother Hell” è un esordio di tutto rispetto: ottimamente strutturato, ben bilanciato nelle sue varie sfaccettature, suonato con la giusta verve e una gran passione e prodotto in modo decisamente appetitoso. Inutile dire che la Cruz del Sur ha fatto un affarone a prendere il terzetto germanico sotto la sua ala protettrice, visto che da questi signori mi aspetto grandi cose.
Promossi.

 

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