Recensione: On Fire

Di Beppe Diana - 11 Novembre 2002 - 0:00
On Fire
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Anno: 2002
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75

Infaticabile prolifico musicista, un vero stakanovista delle sette note, ecco come potrei definire quel genio che risponde al nome di Mike Amott, che , a pochi mesi dalla pubblicazione del come back dei redivivi Arch Enemy, torna nuovamente sul mercato discografico con gli Spiritual Beggars, l’altra sua creatura musicale on the road sin dal lontano 1996, cercando di rispondere al colpo al fianco inflittogli dall’ex cantante/bassista Spice che con l’album di debutto dei suoi The Mushroom River Band, ha saputo riscuotere consensi unanimi da parte di fans e critica.

Beh a dire il vero, con l’eco del capolavoro “Ad Astra” che ancora mi riecheggia nei timpani, devo ammettere di buon grado che il nuovo “On Fire”, questo il titolo scelto per la quarta fatica della pur giovane carriera musicale dei nostri, è un gran bel album che, cercando di recuperare il feeling e il suono caldo del buon vecchio hard rock seventies style, con la chitarra del buon Mike e soprattutto con l’hammond dell’ottimo Per Wiberg sempre più in primo piano, tenta in ogni modo di allontanarsi dal suono forzatamente d’impatto del capolavoro sopra citato, riuscendo pienamente nell’intento di sviare ai dovuti paragoni sempre più incalzanti.

A tal uopo l’innesto dell’ottimo  JB alla voce, già membro dei geniali Grand Magus, risulta davvero azzeccato, infatti con la sua particolare timbrica calda ed ammaliante, il nostro amico contribuisce a stravolgere il sound dei Beggars, tuttavia senza snaturarlo completamente, e se a questo aggiungete che il mixing finale è stato curato dalla coppia Andy Sneap/Fredrik Nordstrom, diciamo che il gioco è bello che fatto.

Un disco torrido, dannatamente diretto, ricco di feeling che emana energia allo stato puro, basato sulla stravaganza strumentale dei musicisti chiamati in questione, più che sulla ruvidità e la spigolosità fini a se stesse presenti su alcune composizioni degli album passati, insomma un disco che fa leva su di un songwriting più vario e per certi versi persino più maturo. Undici splendide tracce fra intrecci di Uriah Heep, High Tide e Black Sabbath: sentite la splendida opener “Street fighting saviour” o la corrosiva “Fools gold”, vere gemme di hard rock etereo privo della benché minima contaminazione, brani in grado di smuovere anche un floscio pachiderma umano come il sottoscritto, e mi saprete dire.

Ma anche gli amanti più intransigenti dello stoner rock avranno di che gioire, e se “Young Man, Old Soul” è sin troppo vicina al repertorio di Kyuss e compagnia bella, “Beneath The Skin” risulta essere un gradino superiore, anche se a mio avviso la band raggiunge il top con la splendida “Black Fathers” che ha il non facile compito di riuscire a competere addirittura con i Rainbow del debutto “Rising”, con l’hammond che intreccia trame sonore tanto care alla splendida “Tarot Woman” dell’Arcobaleno più famoso del mondo hard rock..

Concludo promuovendo a pieni voti la band che, pur non cullandosi sugli allori e sul successo di massa acquisito con i primi tre album, se non altro ha avuto il coraggio di saper osare ampliando il proprio spettro sonoro, rifacendosi si ai maestri del passato, ma riuscendo allo stesso modo a risultare decisa e vincente. Consigliatissimo

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