Recensione: Pawns & Kings

Di Vittorio Cafiero - 4 Febbraio 2023 - 10:44
Pawns & Kings
Band: Alter Bridge
Etichetta: Napalm Records
Genere: Hard Rock 
Anno: 2022
Nazione:
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80

Sono trascorsi tre anni esatti dalla pubblicazione di “Walk The Sky”, album che alla lunga aveva convinto solo in parte e tre anni da un punto di vista discografico sono poca cosa, tutto sommato.  Tranne forse che per gli Alter Bridge, i quali, nonostante pandemie e guerre assortite, non sono di certo rimasti con le mani in mano. Impossibilitati a effettuare tour estensivi con la loro band principale (se si esclude quello iniziale a fine 2019 di presentazione del disco), Myles Kennedy e Mark Tremonti hanno pensato bene di darsi da fare con i loro progetti extra: il cantante è uscito con il suo secondo lavoro “The Ides Of March” senza dimenticare il suo ruolo fondamentale di cantante nel gruppo di Slash (il cui ultimo album “4” è uscito all’inizio dell’anno passato), mentre il chitarrista e cantante italo-americano ha dato alle stampe l’ottimo “Marching In Time” della sua omonima band oltre al progetto benefico “Mark Tremonti Sings Frank Sinatra”.

Insomma, sempre tantissima carne al fuoco per i Nostri al di fuori della zona di confort targata “Alter Bridge”. Se a ciò si aggiunge la qualità leggermente in calo delle ultime uscite (possiamo tranquillamente affermare che anche “The Last Hero” del 2016 è di livello standard rispetto ai fasti precedenti), la preoccupazione che la band americana potesse incappare in un passo falso c’era. Preoccupazione, quindi, ma anche tanta curiosità nell’avvicinarsi a “Pawns & Kings”, il settimo album della band americana uscito ancora una volta su Napalm Records e nuovamente prodotto dall’ormai quinto membro Michael “Elvis” Baskette (dietro al banco della produzione dai tempi di “Blackbird”). E invece, subito le impressioni sono positive: “This Is War”, il pezzo di apertura, si presenta con quella solennità ultimamente un po’ scomparsa in casa Alter Bridge: pesante quanto basta, cadenzato, moderno, con un Myles Kennedy che sembra più in forma dietro al microfono, privo di qualsivoglia costrizione a livello vocale. Ma anche a livello strumentale la traccia pare irreprensibile: tanto il pezzo è notevole per la linea melodica, quanto per la ritmica e il lavoro chitarristico in generale. Un buon preambolo, quindi, che viene confermato con il prosieguo. I pezzi convincono, l’album suona consistente, sentito, la scrittura sembra finalmente tornata a livelli convincenti (qualcuno ricorda “Fortress”?), dove la canzone torna prepotentemente al centro della proposta e la band gioca tutte le sue carte migliori, ossia un cantante eccellente che è altresì un ottimo chitarrista e un eccellente chitarrista che sta diventando anno dopo anno un ottimo cantante. Ma, dicevamo, al di là delle qualità dei singoli, la forza dell’album è il songwriting: armonico nella tracklist, senza essere monotono, con l’unico  momento (positivo) fuori dal coro rappresentato da “Stay” cantata da Tremonti. Più centrato, come se la band semplicemente ci avesse messo più impegno rispetto a “Walk The Sky” e “The Last Hero”, che a conti fatti nella discografia della band ad oggi sembrano due dischi ordinari o poco più.

Dopo sette album e davanti a questo risultato, risulta veramente fuori luogo chi definisce superficialmente il gruppo “post-grunge”, etichetta davvero limitante per una band che propone pezzi come “Fable of the Silent Son”, che con i suoi oltre 8 minuti diventa la canzone più lunga mai scritta dalla band e ci fa capire quali traguardi possano raggiungere a livello compositivo e stilistico, oppure come “Last Man Standing”, con le sue ritmiche irregolari ai limiti del progressive metal. La cura degli arrangiamenti è maniacale, non c’è il minimo passaggio a vuoto, le banalità sono nulle e il songwriting è curato, approfondito, dove nulla è lasciato al caso: il recente singolo “Holiday”, ad esempio, dal refrain così facilmente memorizzabile eppure così articolato nella costruzione, positivamente nervoso.

Pawns & Kings” non cambierà il destino della band e non la catapulterà nell’Olimpo dei megagruppi da stadio, eppure non c’è una singola traccia veramente sottotono, anzi, sono veramente tanti i picchi, anche se forse manca il pezzo definitivo che possa diventare caposaldo delle loro setlist dal vivo come una “Blackbird” o una “Metalingus”. Possiamo quindi affermare che il gruppo americano ha tolto quel pilota automatico innestato da qualche anno ed è tornato con un album di qualità, al livello del suo nome e decisamente superiore alle ultimissime uscite, troppo d’”ordinanza”; un disco che va ascoltato con attenzione, soffermandosi sui dettagli perché sono proprio questi che lo rendono uno dei migliori episodi dell’intera discografia degli Alter Bridge.

Vittorio Cafiero

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