Recensione: Peste Noire
Appestati di tutto il mondo, rialzatevi dai vostri immondi giacigli: La Sale Famine de Valfunde è uscito di nuovo dal suo lazzaretto per guidarvi lungo una nuova, folle e mefitica marcia attraverso le rovine della società occidentale del terzo millennio.
E lo fa con un album intitolato come il nome della band: Peste Noire. Nulla di più, nulla di meno. Un nome che ormai, dallo straordinario full length di debutto del 2006, è diventato una garanzia per tutti gli amanti del black metal più anticonvenzionale. Questo è quello che i sostenitori del Kommando francese si aspettano: un rivolo giallognolo di black metal malmesso, sgraziato, contraddistinto dall’indefinibile mescolanza di elementi sonori differenti.
L’ottimo L’Ordure à l’État Pur (2011) aveva stupito anche i più progressisti con degli spunti davvero inusuali, tra i quali si potevano contare persino influenze elettroniche e ska. Di qui, un bivio si presentava inevitabilmente di fronte alla band: continuare sulla difficile ma entusiasmante strada della sperimentazione sonora, con risultati verosimilmente imprevedibili, oppure fare un passo indietro. Ed è proprio questa seconda via che Famine sceglie di percorrere. Tuttavia, ciò che egli ci propone è ben lontano dall’essere semplicemente una minestra riscaldata. Un ritorno a vere e proprie sonorità ‘tradizionali’ è inoltre impossibile per i Peste Noire, band la cui storia è stata segnata da sonorità instabili il cui unico denominatore comune è probabilmente l’evidente sporcizia sonora (oltre che ideologica).
Peste Noire pone più che altro un freno al campo d’influenze esterne che l’artista francese incorpora nel proprio sound: l’eclettismo sonoro rimane, ma viene quasi totalmente privato della sua natura pressoché caricaturale che contraddistingueva l’album precedente. Niente più ska e musica elettronica, quindi; ma restano, incrollabili, il folk sgangherato, qui portato all’eccesso, e i placidi inserti di chitarra acustica; elementi che hanno fatto la fortuna di Ballade Cuntre Lo Anemi Francor (2009) e di quel capolavoro che risponde al nome di La Sanie des Siècles (2006). Marchi di fabbrica senza i quali, francamente, i Peste Noire avrebbero ben pochi motivi per essere ricordati. La fisarmonica, strumento che non può certo mancare ad una band francese reazionaria, fa capolino anche in questo album (vd. Démonarque), così come gli arpeggi acustici che ci ricordano che Famine, al di là del suo lato più squilibrato, ha anche – per lo meno quando stacca la chitarra dall’amplificatore – una sensibilità più apollinea e delle capacità tecniche non trascurabili, anche se ovviamente non certo da guitar hero (vd. Le clebs noir de Pontgibaud e Ode). Altra caratteristica fondamentale, che era parzialmente andata persa in L’Ordure à l’État Pur e che viene qui recuperata, è la malinconia: tra le macerie e il caos spunta a volte, grazie ad uno dei già citati arpeggi o al timbro vocale di Audrey S. (Alcest, Amesoeurs), tanto semplice quanto toccante, un intermezzo dolce, un momento di nostalgico abbandono al pensiero di un altro tempo, rimpianto e vagheggiato come una terra promessa ormai lasciata per sempre alle spalle. Malinconia che, se talvolta offre uno stabile rifugio al disilluso e nostalgico apolide del 2013 (cfr. il finale di La bêche et l’epée contre l’usurier e Ode), viene altrove riconosciuta con frustrazione come sterile, dando luogo a degli strazianti quanto spaventosi sfoghi apocalittici quale quello, esemplare, in Niquez vos villes.
Non una sensazione prevalente, non una direzione precisa sono rintracciabili in questo album e, addirittura, all’interno di ogni singolo brano. La follia, la rabbia e la nostalgia si intrecciano e cozzano tra loro, dando luce ad un’opera dall’innegabile spessore ma dall’altrettanto innegabile caos; un’opera tanto densa quanto di difficile accesso. La mente di Famine, lo si era capito, ribolle di energie e idee le quali, questa volta, sono state semplicemente trasposte in suoni senza una precisa pianificazione. Con Peste Noire la mente dell’artista francese balza fuori dal suo cranio e ci si presenta così com’è, travolgendoci del materiale più disparato, pericolosamente in bilico tra genio e follia. Per questo motivo il nuovo capitolo dei francesi è consigliato a tutti coloro che, essendo già stati appestati dai capitoli precedenti, potrebbero riuscire a districarsi in questa sregolata cornucopia sonora – con la doverosa precisazione che, anche per loro, la cosa potrebbe richiedere molta forza di volontà e ripetuti ascolti. A tutti gli altri, ai quali quest’album risulterà probabilmente a dir poco indigesto, consiglio vivamente di cominciare senza indugio dalle basi (La Sanie des Siècles) per poi continuare verso i capitoli seguenti, perché i Peste Noire sono stati – e rimangono – una delle band di punta a livello mondiale nel panorama del black metal più eterodosso.
Francesco “Gabba” Gabaglio
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