Recensione: Plagues of Babylon

Di Matteo Di Leo - 9 Gennaio 2014 - 2:13
Plagues of Babylon
Band: Iced Earth
Etichetta:
Genere: Thrash 
Anno: 2013
Nazione:
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80


Se gli Iced Earth non sono ancora da considerare un’icona del movimento metal mondiale, poco ci manca. Granitica come poche, la ciurma guidata da Jon Schaffer dopo aver segnato gli anni ‘90, è andata via via consolidando il proprio nome nonostante svariati cambi di formazione.
 
Dopo la seconda, dolorosa separazione dal “leone” Matt Barlow, gli Iced Earth sembrano vivere un’altra giovinezza grazie all’ingresso del fenomenale cantante Stu Block, come testimoniato dal buon “Dystopia”.
 
Per questo nuovo “Plagues of Babylon” le cose vanno anche meglio: il complesso è più amalgamato, l’intesa tra Stu e Jon oliata dal sudore del palco ed un marcato ritorno a sonorità thrash rende più gagliarda e sanguigna la loro musica, anche se ben presente rimane il legame con il metal classico.
 
Molti sono i punti di forza di questo disco. A partire, ovviamente, dalle canzoni. Era infatti dai tempi dei vari “Burnt Offering”, “The Dark Saga” e “Something Wicked This Way Comes” che non assistevamo a tanta qualità in così tanti brani. Attenzione, “Plagues of Babylon” non raggiunge comunque quelle vette, ma diciamo che si ferma subito sotto. A conti fatti, soltanto due pezzi della collezione non mi convincono. Per il resto, a partire dall’iniziale e solenne eponima traccia, è un susseguirsi di bellissimi esempi di heavy/thrash con ritornelli epici e coinvolgenti che rappresentano la vera anima dell’album.
 
La prima metà del CD è la prosecuzione della “Something Wicked Saga” tanto cara al leader e li non troviamo una sola battuta a vuoto. Che si tratti di brani d’impatto come “Democide” o “Among The Living” (con tanto di gradito ospite, l’amico di mille battaglie Hansi Kürsch) oppure le più emozionali “The Culling” e “Resistance” od ancora la maideniana “The End?” è tutto praticamente perfetto.
 
Ma Iced Earth vuol dire anche power ballad: ecco quindi che la seconda parte del lavoro si apre con la stupenda “If I Could See You”, un’altra perla che si aggiunge alle varie “Melancholy”, “I Died For You” o “Watching Over Me” con quello stile praticamente unico ed ormai certificato.
 
Di buon gusto sono sia la milionesima rilettura metal del mostro lovercraftiano “Cthulhu” che “Peacemeaker”, mentre in chiusura giungono le note dolenti, ovvero la scialba “Parasite” e la riedizione di “Spirit of the times” dei Sons of Liberty, progetto solista dello stesso Schaffer. Ecco, senza questi due titoli e l’inutile outro finale avremmo una buona decina di minuti in meno e nessun riempitivo, quindi il valore complessivo sarebbe sensibilmente più alto.
 
Cos’altro rende “Plagues of Babylon” un buonissimo ascolto? Dopo aver rimarcato l’ennesima dimostrazione del talento compositivo di Jon Schaffer e l’ottima prestazione del chitarrista solista Troy Seele, dobbiamo doverosamente sottolineare la prova Stu Block. Signori, qui stiamo parlando di uno dei ragazzi più promettenti della sua generazione. Nonostante il canadese non utilizzi tutto il suo spaventoso range vocale (come faceva negli gli Into Eternity, vedi “The Incurable Tragedy”), risulta perfetto nel modulare le corde vocali a seconda della situazione richiesta. L’unico appunto da fare è che sui toni medi rimanda troppo a Barlow; penso che se gli venisse data totale carta bianca tirerebbe fuori qualcosa di straordinario che però rischierebbe di distaccarsi troppo dal tipico suono della “terra ghiacciata”.
 
In chiusura, segnaliamo la ripresa del classico a stelle e strisce “Highwayman” che vede alternarsi dietro al microfono Schaffer, Russell Allen dei Symphony X, Block e Michael Poulsen dei Volbeat.

Matteo Di Leo

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