Recensione: Portrait Of A Dying Heart

Di Francesco Bellucci - 16 Dicembre 2012 - 0:00
Portrait Of A Dying Heart
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Anno: 2012
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74

Dopo un’attesa durata due anni arriva il nuovo lavoro dei Secret Sphere, una delle band storiche del panorama power della nostra Penisola. Autori di un album inarrivabile come “A Time Never Come”, riferimento ormai da oltre un decennio nel panorama metal italiano e non solo, era chiaro che le aspettative fossero alte. A tutto ciò la sostituzione dello storico frontman Roberto Messina con il bravissimo Michele Luppi, rendeva l’uscita di Portrait un momento atteso da molti.

01 – Portrait Of A Dying Heart

Pochi rintocchi di campane artificiali annunciano quello che sarà il riuscitissimo prequel al settimo album dei Secret Sphere. Questo brano strumentale è un collage di citazioni tratte dalle successive nove tracce. Per intenderci, una mini suite alla Dream Theater di “Ouverture 1924”. I panorami sonori attraversati sono molteplici: ritmiche compatte, infarcite di interludi melodici, figure metriche care ai Symphony x (2:02 – 2:30), arrangiamenti opulenti e avvincenti fughe di archi, lontani cori ayreoniani (2:30 – 2:53), ritmiche trash (3:17 – 3:40), frangenti pieni di pathos e drammaticità (3:40 – 4:03), svolte orchestrali epiche e poderose (4:25 – 4:48). Insomma, una dichiarazione di intenti, un bignami dell’ album che è anche e soprattutto un brano a se stante, caratteristica che ne determina la bellezza. Eccezion fatta per il solo a 3:04 – 3:17 poco plastico e non adeguato, questa strumentale è ammirevole, ed oltre a testimoniare l’indubbia perizia tecnica dell’ensemble, attesta una moderna ed avvincente capacità compositiva, che strizza sicura l’occhio ad un canovaccio più progressive metal che power. Un plauso particolare al bel drumming, intelligente e mai sopra le righe di Pennazzato, ed agli ottimi arrangiamenti e variazioni armoniche.

02 – X

Omaggio non sappiamo quanto voluto ad “Eye to Eye” dei Fates Warning, il pezzo riprende subito coordinate più personali iniziando a respirare in autonomia con un solenne interludio a 1:01 – 1:13, dove il pianoforte offre un movimentato tappeto armonico di rara eleganza. Ottima ed esaltante, quanto rapidissima, la variazione armonica scandita dai power chords nelle ultime due misure della seconda e conclusiva battuta.
L’ingresso discreto del cantato non tragga in inganno, il tempo di farci abbassare la guardia qualche secondo, che una ritmica serrata, compatta e tagliente ci travolge a 165 di metronomo. Segue una melodica strofa che, dopo il bridge, apre su un ritornello solare in pieno stile power tricolore, di sicuro successo dal vivo. Succede nuovamente bridge, strofa e ritornello, riassemblati in maniera per nulla banale. Di particolare interesse il suggestivo colpo di classe della band, e picco melodico ed interpretativo di Luppi, all’entusiasmante minuto 3:34 – 3:52. Gustoso e dal sapore “natalizio” anche l’inserto a 4:09 – 4:27 che alterna un momento massiccio e melodico con belle chitarre armonizzate, ad una chiusura minimale e raffinata di chitarre acustiche che sillabano dolcemente su un dimesso tappeto di tastiere ed un lontano pianoforte. Pezzo inappuntabile, che colpisce ed entusiasma in più parti, ma soprattutto nel finale acustico di magnifica qualità. Peccato che tali momenti siano centellinati con tanta parsimonia.

03 – Wish & Steadiness

Un pianoforte dissonante offre l’impianto armonico per una intro dall’incedere epico e magniloquente, arrangiata come nemmeno i Raphsody avrebbero saputo fare meglio. Poi tutto sfuma per cedere il passo ad un massiccio riff tecnico impreziosito da un intervento solistico veloce e preciso.
La strofa ed il ritornello in doppia cassa fissa filano scorrevoli. Gli arrangiamenti di tastiere, caso raro, qui non piacciono, poicheè trovano poca consonanza col resto del pezzo, andando ulteriormente a mettere dove al più si sarebbe dovuto togliere.  Rompe la monotonia il bridge a 3:44, filmicamente arrangiato. Il successivo solo stenta a decollare e, tranne che nella parte conclusiva, manca di incisività. Di nuovo strofa, ritornello e chiusura. Un pezzo dove, escluso il bridge e la parte finale dalle brevi armonizzazioni vocali, la linea vocale sembra rincorrere il resto della band, perdendosi in melodie acquose e dispersive. Compatto e granitico, “Wish & Steadiness” rappresenta una composizione senza sorprese e grilli per la testa, ahinoi piuttosto scolastica. Dopo la splendida intro ci saremmo aspettati un brano maggiormente ragionato e melodicamente più incisivo.

04 – Union

E’ una song dall’appeal radiofonico, che mantiene nelle melodie di strofa e ritornello una voluta attitudine ingenua. Dubbia la scelta di usare la chitarra acustica dell’introduzione come ulteriore base per il ritornello. Interessanti e moderni invece sono gli arrangiamenti ed i suoni di tastiera. Lode va al bridge a 2:31 dove Luppi è interprete di una pregiata ed aggressiva linea vocale e di cori intelligenti e contemporanei. Il lancio del solo è da manuale, come anche l’intervento solistico, pulito ed efficace, intenzionalmente irrisolto. Concludendo, si tratta di un brano rettilineo, le cui melodie a tratti semplicione non convincono del tutto.

05 – The Fall

Il grosso e caustico riff infarcito di armonici artificiali su un up tempo martellante apre su una prima parte strumentale, imbevuta di teatralità epica, magnificamente arrangiata. La strofa non lascia scampo ed ancora di più lo splendido bridge, con quel complice pianoforte in sottofondo. Peccato per l’irrisolto finale della melodia che mal si lega al ritornello, anch’esso mal sfumato. Scelta felice quella del seguente interludio solistico con la chitarra a disegnare arpeggi ostinati in tapping sopra una massiccia base metallica. Ben inserite le tastiere nella seconda strofa. A 3:27 incontriamo una bella variazione armonica che lancia una figura all’unisono di tastiera e chitarra, ed una successiva parte strumentale con gli interventi solistici di chitarra e poi di tastiera che concludono in un’altra esaltante figura all’unisono. Piccola pausa ed ancora il ritornello tellurico. Pezzo di fascino, che su un impianto power inserisce elementi progressivi interessanti. Uno dei due brani più aggressivi dell’album.

06 – Healing

Quattro battute di suoni dance introducono una ritmica assassina. Più fluida ed alleggerita arriva la strofa, il bridge ed il ritornello. Notevole la chiusura a 1:32 – 1:38 (ed anche a 2:42 – 2:47 e 3:58 – 4:09) dove Luppi sembra voglia arrivare a gridare fino alla stratosfera, ovviamente riuscendoci. La stessa idea viene sfruttata nel lancio del solo, dove un esemplare uso di wammy bar, armonici artificiali, bending all’unisono, glissati e tecnica, supera una certa scolasticità. Brano compatto e duro, con arrangiamenti ricchi e funzionali, convince più che positivamente.

07 – Lie To Me

È un pezzo dall’appeal commerciale che ricorda nell’architettura qualcosa degli Evanescence, fatti ovviamente i debiti distinguo. Rimane comunque godibile nella sua semplicità, misuratamente vario e abilmente arrangiato. Ottimo Luppi come del resto gli altri ragazzi della band, sempre perfetti.

08 – Secrets Fear

Un riffone bollente che sembra uscito da “A Predators Portrait” dei Soilwork (penso a “Like the Average Stalker”) dopo un divertente passaggio di tastiere porta al verso trashy veloce e velenoso. Bravo Luppi a tenere tirata la situazione e notevole il bridge, mentre non particolarmente degno di nota il ritornello. E’ interessante la parte centrale (3:06 – 3:47), dove la canzone acquista un lirismo da ballata. Funzionale risulta essere l’interludio strumentale successivo, come molto tirato e selvaggio il solo. Brano strutturato, circolare e cattivo, che mantiene personalità e congruenza con i testi. Piattine le linee melodiche.

09 – The Rising Of  Love

La magnifica intro da colonna sonora annuncia un brano di ampio respiro, melodico e emozionale dall’ architettura da ballata hard. La track, oltre che sui sontuosi arrangiamenti, si regge sull’interpretazione di un Luppi sempre all’altezza, anche se restiamo perplessi sulla sua longevità.

10 – Eternity

Un’ altra ballata hard, questa volta più morbida e dal sapore yankee. Bella e trascinante la melodia che nel ritornello dilatato, cristallino e toccante (forse il più ben concepito dell’intero album) dona momenti di rapimento. Ottima la variazione a 3:15 – 3:38 che lancia il solo. Un Luppi intenso regala una prestazione emozionante.

In sintesi:

Per evitare confusione, prima nel recensore che nei gentili lettori, sarà a questo punto necessario utilizzare una certa sistematicità nel chiudere questo articoletto, cercando di trarne qualche conclusione. Se da una parte infatti non possiamo non trattare del cambio di vocalist, dall’altra parte dobbiamo operare una concreta valutazione del nuovo lavoro, sgomberando il campo da gossip ed amarcord.
Partiamo innanzitutto col dire che sarà dura per i vecchi fan mandare giù il boccone amaro del distacco della band da un cantante così carismatico come Roberto Messina, che regalava l’ormai nota e personalissima teatralità al gruppo.
D’alto canto la presenza di un singer tanto talentuoso e riconoscibile come Luppi è un’arma a doppio taglio in quanto, così come potrebbe fornire nuovo vigore e carattere a quello che è ancora il blob dei Secret Sphere, potrebbe di converso facilmente far apparire la proposta della band qualcosa di fortemente derivativo. Il gruppo di Lonobile e soci è un animale che sta cambiando pelle, ma non l’ha ancora cambiata. Per cui in una natura in cui il concetto di definitività è paradossalmente sfuggente, cogliere cosa tale animale metallico diventerà e dove deciderà di andare, è questione assai ardua.
Quanto al reale contenuto di “Portrait Of A Dying Heart”, diciamo subito che tutto è di altissimo livello, dalla bella idea di Costanza Colombo che è alla base del lavoro, ai suoni, dall’artwork, alla maiuscola prestazione dei della band. Tuttavia possiamo notare una certa piattezza nelle melodie e nei ritornelli, piattezza che fa le intuizioni melodiche presenti nell’album non sempre azzeccate, soffocando i momenti più interessanti ed avvincenti, troppo poco generosamente seminati all’interno delle dieci  tracce.
In un genere così facilmente inflazionabile ed inflazionato come il power – a causa della rigidità dei suoi  stilemi e del congenito minimalismo – la scelta e l’attenzione rivolta alle melodie diviene un elemento fondamentale ed il vero e proprio discrimine al reale apprezzamento del pubblico. E’ infatti sulle melodie che si gioca la partita del successo di un brano, della sua forza empatica e della sua conseguente longevità, ed è per tale latitanza che alcuni pezzi stentano a decollare e faticano a farsi ricordare.
Potrebbe pertanto trarre in inganno l’indubbia sicurezza dei mezzi tecnici e compositivi della band, ed essere confusa con un assestamento definitivo, o peggio, con un accomodamento momentaneo. Ritengo invece “Portrait Of A Dying Heart” sia un lavoro ostinatamente voluto, ma di transizione, dove il gruppo ricerca nuove coordinate per il suo viaggio.

Concludiamo scusandoci per una certa intransigenza manifestata nell’incedere della recensione, ma abitualmente si tende sempre ad essere più cattivi proprio con i migliori…

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Tracklist:

01. Portrait of a Dying Heart
02. X
03. Wish & Steadiness
04. Union
05. The Fall
06. Healing
07. Lie to Me
08. Secrets Fear
09. The Rising of Love
10. Eternity

Line Up:

Michele Luppi – Voce
Aldo Lonobile – Chitarra
Marco Pastorino – Chitarra
Gabriele Ciaccia – Tastiere
Andrea Buratto – Basso
Federico Pennazzato – Batteria
 

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