Recensione: Ravening Iron

Di Marco Catarzi - 19 Novembre 2020 - 8:00
Ravening Iron
Etichetta: No Remorse
Genere: Epic 
Anno: 2020
Nazione:
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72

Moorcock, Frazetta, Dragonlance, Kelly… nomi in ordine sparso che rievocano suggestioni importanti tra gli amanti della “cultura” fantasy.
In passato la “questione” epic metal è stata a quasi esclusivo appannaggio degli Stati Uniti. Gli Eternal Champion, fieri alfieri di queste sonorità, si erano presentati nel 2016 con l’ottimo debut The Armor of Ire, dalla produzione grezza e potente, che aveva in dote una stupefacente influenza di band come gli Omen, presentando brani trascinanti (fra tutti I Am the Hammer e la title-tack, uno degli anthem più belli sentiti negli ultimi anni in ambito epic). L’onestà del songwriting ne aveva accresciuto velocemente il seguito in ambito underground, oltre ad aprire le porte dei principali festival “a tema”. Le aspettative per un nuovo full-length si sono fatte quindi più alte. A livello iconografico le band storiche del genere hanno adottato scelte precise per i vari artwork, visivamente più raffinate in Manowar, Cirith Ungol e in parte Virgin Steele, più “primitive” in Omen, Manilla Road, Heavy Load (all’epoca tra i pochi a muoversi su queste coordinate in Europa). Vedere che per la copertina del nuovo Ravening Iron è stato chiesto l’intervento proprio di Ken Kelly, lo stesso scelto dai Manowar da Fighting the World in poi, denota l’intenzione di fare sul serio.

La produzione è più “pulita” e l’opener A Face in the Glare mostra scelte precise del quartetto (almeno in sala di incisione) texano e qualche differenza rispetto all’album precedente. Un riff quadrato introduce un pezzo generalmente medio-lento, calato in atmosfere epic, con assoli d’altri tempi e linee vocali declamatorie che evocano più volte lo spettro di Messiah Marcolin. Aprire l’album in maniera così cadenzata è scelta coraggiosa. Nella title-track i ritmi cambiano notevolmente, riff veloci introducono una melodia che crea subito il refrain, la voce di Jason Tarpey non cerca mai facili soluzioni ma si inserisce in territori che ricordano la magia e la drammaticità dei Warlord. Assieme a Worms of the Earth, altra canzone “guerresca” e aggressiva, con un ottimo lavoro di batteria, restiamo vicini alle sonorità della precedente uscita discografica. Gli altri brani invece si caratterizzano per un rallentamento delle trame, in cui l’influenza di Candlemass e Manilla Road emerge maggiormente, a scapito dell’immediatezza delle composizioni, donando però all’album una più ampia profondità nelle sue sfumature. Si scava alla ricerca delle radici dell’epic metal, con una filosofia compositiva ripresa dagli anni Ottanta e un modo di “fare metal” che si prende il rischio di trascurare quello che è avvenuto negli anni Novanta e Duemila.

Skullseeker ha marcate influenze epic-doom, andamento evocativo e integrità old-school. I fraseggi e gli inserti solisti di War at the Edge of the End mostrano di avere un’anima, senza vezzi tecnici fine a se stessi. Uno dei maggiori pregi di Ravening Iron è proprio la capacità di ogni elemento di impreziosire la struttura dei brani. In Coward’s Keep un inizio quasi anni Settanta lascia spazio a riff corposi, con una sezione ritmica presente e scelte vocali che seguono ritmi da litania. The Godblade fa da intro a Banners of Arhai, pezzo dalle molteplici suggestioni, tra melodie di scuola Candlemass, parti emotive, atmosfere drammatiche ed epiche.

Sono necessari più ascolti per entrare nelle trame e nelle sfumature di questo Ravening Iron. Gli Eternal Champion sembrano voler ribadire che l’epic metal non è musica da “ragazzini” e si pongono tra i più credibili prosecutori di questa tradizione. Chi affronta la “materia” con tale dedizione è sempre degno di rispetto e attenzione (alcuni membri hanno comunque esperienze in band più estreme e questo sembra emergere nell’intensità delle prestazioni dal vivo). L’unico rischio è che il calderone NWOTHM, da cui stanno emergendo con merito, col tempo li risucchi nuovamente dentro di sé.

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